SEMBRA che al Tribunale di Caltanissetta si perpetui la “disattenzione” sui depistaggi voluti dai falsi pentiti, prima con Scarantino e via via fino a Calcara!
Quella del vicequestore Michele Messineo, è la storia di un’anfora, di pentiti e di un cumulo di menzogne che hanno finito con il rovinare la carriera e la vita di un uomo dello Stato e forse con l’avvantaggiare quei mafiosi ai quali si dice di voler dare la caccia. Se da un lato non vi è alcun dubbio sul fatto che i pentiti possano aver rappresentato in taluni casi un ottimo strumento investigativo, dall’altro, troppo spesso le loro dichiarazioni sono state accettate come fossero state tratte dal Vangelo, non tenendo conto dell’interesse degli stessi ad autoaccusarsi e accusare anche altri per reati mai commessi, al solo fine di trarne benefici personali. È sufficiente pensare a quanto accaduto con la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta, per rendersi conto degli errori madornali commessi nel corso delle indagini che portarono a ergastoli ingiusti e al balletto di ritrattazioni, e ritrattazioni delle ritrattazioni, che avrebbero dovuto far riflettere sulla credibilità di chi propalava bugie su bugie che sarebbero poi state smentite a seguito dei faccia a faccia tra investigatori, magistrati e falsi pentiti, con questi ultimi che hanno dichiarato di aver mentito, ma solo perché costretti con la violenza.
La vicenda dell’anfora, che si vuole sia stata trafugata dall’allora capomafia di Trapani, Francesco Messina Denaro, e che sarebbe poi finita nel salotto del vicequestore Messineo, è stata narrata dal pentito Pietro Scavuzzo, che non ha esitato nel dipingere Messineo come un uomo contiguo alle cosche mafiose. Ma un pentito per essere credibile ha bisogno di altri pentiti che, con le loro dichiarazioni, ne avallino la “genuinità”. E in questo, abili mestieranti del pentitismo, complice lo strabismo – se non peggio – di investigatori e magistrati, hanno dato prova di grandi capacità, sgranando bugie su bugie, durante una lunghissima stagione di processi. Oltre a Scavuzzo, a prestare la loro “opera”, furono i “collaboratori di giustizia” Rosario Spatola, Vicenzo Calcara e Giacoma Filippello. Calcara Il 9 giugno 1996, dopo anni che hanno finito con il rovinare vita e carriera di Messineo, il Pubblico Ministero Antonio Napoli, della Procura della Repubblica di Palermo, chiese al Giudice per le indagini preliminari l’archiviazione nei confronti del vicequestore, “non essendo stati acquisiti riscontri sufficienti e comunque forniti della necessaria efficacia convalidante delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia per la trasmigrazione del procedimento alla fase processuale”. Il P.M. tuttavia, non metteva in dubbio l’attendibilità dei dichiaranti, anzi, aggiungeva “in vero è a dirsi che la collaborazione di Pietro Scavuzzo. Rosario Spatola, Vicenzo Calcara e Giacoma Filippello, ha senz’altro una valenza di particolare attendibilità in linea generale e complessiva”. Il Giudice per le indagini preliminari, nell’ordinare l’archiviazione per le ragioni succitate, evidenziava però come il P.M. non avesse posto in rilievo l’inconsistenza delle indagini di P.G. compiute a largo raggio, né l’esito negativo di dichiarazioni rese da persone informate sui fatti. Se il P.M. prima ed il G.I.P. dopo, avessero avuto la possibilità di approfondire la materia, ben diversa sarebbe stata la motivazione del proscioglimento.
A smentire l’attendibilità dei collaboratori che accusavano Messineo, furono una raffica di sentenze.
Calcara Vincenzo venne smentito da altri collaboratori di giustizia, da testimoni e dal giudizio della magistratura giudicante: Sentenza nr.l5A7/97 emessa il 16 aprile 1997 della Corte di Appello di Palermo:la posizione di tutti gli imputati ricorrenti in appello è stata ridimensionata da assoluzioni e rideterminazione di pena. La motivazione traccia un giudizio severo nei confronti del collaborante;
Sentenza nr. 375/93 emessa il 18.06.1993 dal G.U.P. di Palermo: non luogo a procedere nei confronti di cinque imputati, tutti accusati da Calcara;
Sentenza nr. 270/96 emessa il 26.11.1996 dal Tribunale di Marsala nei confronti un Agente di Polizia Penitenziaria: assolto perché il fatto non sussiste;
Sentenza nr, 199/97 emessa il 31.10.1997 dal Tribunale di Marsala nei confronti di un soggetto politico: assolto non avere commesso il fatto;
Sentenza 5908/97 emessa 1’08.11.1997 dalla Corte di Appella di Roma nei confronti di impiegati di Cassazione e avvocati:tutti assolti perché il fatto non sussiste;
e così via proseguendo. Assoluzioni da accuse di omicidio, decreti di archiviazione dalle accuse del Calcara pronunciate nei confronti di decine di indagati, compreso sottufficiali dell’Arma dei Carabinieri e di altri la cui attività, volta alla cattura di boss di primo piano del panorama mafioso siciliano, veniva resa vana dalle accuse del pentito. Calcara è stato poi denunziato per calunnia ed altro, ma delle carriere distrutte, dell’immagine di quanti sono stati oggetto delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, del danno causato alle indagini e per la mancata cattura di boss mafiosi, chi sarà chiamato a risponderne?
Un’idea in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni, ce la dà la Corte di Appello di Palermo che così si esprime “le contraddizioni concernenti aspetti fondamentali del fatto specifico dell’appartenenza a “cosa nostra”…- e soprattutto le dichiarazioni rese in sede di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale dei collaboranti Patti, Geraci, Bono apportano allo specifico quadro probatorio elementi di segno decisamente contrari e stigmatizza “le rilevanti problematiche che investono la credibilità del collaborante” che “…. devono indurre ad una particolare prudenza nell’esame delle sue propalazioni….“. Gli stessi giudici esprimono poi un giudizio negativo nei confronti del collaborante che viene definito “… soggetto che manifesta sfrontatamente la propria disponibilità al mendacio e l’attitudine a farsi gioco dello Stato pur di ottenere qualche vantaggio (pag.27 sentenza nr.1547/97). Il Calcara non ha esitato a dichiarare in pubblico dibattimento, con impressionante sfrontatezza che “per prendere per fessi i giudici basta un po’ di fantasia”. Un “pentitismo” funzionale agli stessi pentiti; a chi grazie ai depistaggi, più o meno voluti, ha tratto beneficio; a chi artatamente ha usato i collaboratori di giustizia a fini carrieristici o altro ancora, provato da una lettera del pentito, scritta in tempo non sospetto al suo difensore, nella quale si dichiarava pronto ad accusarsi di delitti mai commessi pur di essere estradato in Italia, lasciando così le carceri tedesche ove era detenuto. Dichiarazioni di un pentito “calunniatore professionale”, o altro?
Scavuzzo Pietro, quello dell’anfora, è stato messo in discussione, a partire dalla sua appartenenza a “cosa nostra”, contraddetta dalle concordanti rivelazioni dei collaboranti di giustizia Sinacori Vincenzo, Patti Antonio e Bono Pietro. Nel processo denominato “Petrov”, a carico di Accardi G. + 67, celebrato dal Tribunale di Trapani, scaturito dalle dichiarazioni dello Scavuzzo, oltre la metà degli imputati, cioè quelli accusati esclusivamente dallo stesso, sono stati assolti. Nel corso del dibattimento il collaborante è stato definito da Sinacori “frariciume”, cioè marciume, soggetto che non ha niente a che dividere con “cosa nostra” ma che può significare anche falso, calunniatore.
Nella sentenza del Tribunale di Marsala, proc. pen. nr.l6B/9A, dello Scavuzzo si legge: “intanto và rilevato che risulta irrevocabilmente condannato anche per svariati episodi di falsità documentale e orale, nonché per simulazione di reato; il chè appare indice di una propensione al falso e al mendacio”… “in ultimo si rileva come la stessa pubblica accusa abbia dichiarato di voler rinunciare al1’utilizzazione probatoria delle dichiarazioni rese dallo Scavuzzo per evidente sospetto circa la sicura affidabilità di tale fonte. Tutto ciò, pur in assenza di ragione di interesse dell’accusa induce a valutare negativamente l’attendibilità generale del collaborante, delle cui dichiarazioni, pertanto, non si terrà conto nel prosieguo”. arresti Filippello Giacoma è stata arrestata in epoca successiva alle dichiarazioni, a Roma per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. La stessa, che ha riferito pettegolezzi de relato le cui fonti sarebbero state persone decedute, trasformandoli in accuse a carico di Messineo, nutre rancore nei suoi confronti per averlo ritenuto responsabile, in concorso con il Dr. Germanà e dell’allora Capitano dei Carabinieri Passaro, dell’arresto, a suo dire ingiusto, per detenzione abusiva di arma ed altro del suo convivente L’Ala Natale. Spatola Rosario, cui è stato tolto il programma di protezione, e che ha parlato di contatti fra pentiti e di deposizioni aggiustate, ha mosso al Dr. Messineo accuse ridicole di cui lo stesso in sede di interrogatorio ha dimostrato l’infondatezza. La storia giudiziaria ci narra di pentiti, autentici collaboratori, dai quali si sono apprese notizie veramente utili per combattere la criminalità organizzata, ma, purtroppo, ci narra anche di soggetti diversi, come nel caso di Michele Messineo che è stato vittima di figuri che nulla hanno da spartire con i veri pentiti. Imputati che si sono fatti ingiustamente e inutilmente anni di galera al 41 bis; funzionari dello Stato, stimati professionisti, soggetti politici, padri di famiglia la cui vita è stata distrutta. Familiari di vittime, che fino a oggi non hanno ottenuto la verità reale sui fatti. Sul caso Messineo torneremo nuovamente, così come scriveremo presto della storia di un’altra figura che poteva portare alla cattura di un super latitante e venne invece messa fuori gioco prima che ciò avvenisse. Qui prodest? Chi aveva e forse ha tutt’oggi l’interesse a non creare alcuno squarcio nella coltre che ha coperto alcuni degli anni più bui della storia del nostro Paese
Fonte: Morici
0 thoughts on “Fra stragi e falsi pentiti. La strana storia del vicequestore Michele Messineo”