La Banca Sicula di Trapani è stata una banca italiana privata. È stata ceduta nel 1991 e incorporata nel 1994 nella Banca Commerciale Italiana (oggi Intesa Sanpaolo)
Fu fondata nel 1883 come Banca Mutua Popolare di Trapani, con Vincenzo Fardella di Torrearsa presidente onorario.
La Banca Sicula, come altre banche marsalesi ,rappresentarono per un lungo periodo, uno speciale “luogo” d’affari dove, l’alta borghesia, certa politica e la mafia trovavano una comoda connivenza per i loro interessi.
Negli anni del boom economico la Banca Sicula diventa potentissima. Molti rampolli delle famiglie borghesi e mafiose trapanesi facevano a gara a sistemare i loro figli nell’istituto. Anche il figlio di Francesco Messina Denaro trovò occupazione come anche figli e fratelli di illustri politici di molti comuni trapanesi, tra cui Castelvetrano. Alcuni di questi impiegati passarono anche all’Intesa San Paolo. La famiglia d’Alì a Castelvetrano, ebbe , per diversi decenni, buone frequentazioni anche con ambienti politici e imprenditoriali
La proprietà era, con altri soci come i Burgarella, della famiglia D’Alì Staiti, che ne ha detenuto dal 1895 sempre la presidenza, prima con Giulio D’Alì Staiti, fino al 1933, cui successe Giacomo D’Alì Staiti, fino al 1976. Nel 1907, con la trasformazione da istituto mutualistico a banca di credito ordinario, fu denominata Banca Sicula, divenendo uno dei punti di riferimento per il credito privato in Sicilia per un lungo periodo.
Nel 1983 l’allora amministratore delegato dell’istituto, Antonio D’Alì, preferì lasciare la carica in quanto il suo nome risultava iscritto nelle liste della loggia P2.
Gli subentrò l’omonimo nipote e futuro Senatore della Repubblica, Antonio jr. Antonio senior divenne presidente della Sosalt, la società che commercializza il sale marino delle saline trapanesi.
Nel 1988 la banca acquisì il titolo di istituto di credito interregionale, raggiungendo 60 sportelli.
Poco prima dell’incorporazione, la Banca aveva aumentato il proprio capitale di 30 miliardi. Nichi Vendola, allora vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, nel 1998, inviò alla Vigilanza della Banca d’Italia un rapporto in cui chiedeva da dove fossero arrivati quei soldi e chi ne avesse finanziato la ricapitalizzazione. Nulla di irregolare trovò Bankitalia.
Il Commissario di Polizia Calogero Germanà ha ipotizzato che l’istituto, al pari della Banca Rasini di Milano, fosse uno dei centri utilizzati per il riciclaggio del denaro sporco di Cosa Nostra.
Nel 1991 il pacchetto di maggioranza della banca, in mano ai D’Alì, venne acquisito dalla Comit, nel cui consiglio di amministrazione va così a sedere Giacomo d’Alì, cugino del senatore.
La famiglia D’Alì è presente a Trapani dal secolo sedicesimo e domina la città dal suo imponente palazzo di tufo. Proprietaria di feudi sterminati e delle famose saline, indiscussa protagonista economica e culturale della Sicilia occidentale. Un D’Alì fondò la Banca Sicula, prima banca privata dell’isola, addirittura nel 1883. La famiglia poi, per tacitare le pretese dei braccianti, affidò il suo latifondo alla solida mafia della Valle del Belice. Uno di questi mafiosi, Francesco Messina Denaro, don Ciccio, ottenne da loro parecchia terra e di fatto l’alter ego del barone; posizione che gli permise di diventare il capo della mafia del trapanese.
Negli anni Settanta si scoprì che avere la terra e avere una banca erano un bel prerequisito per sistemare in loco una raffineria di eroina, che infatti sorse sulle colline di Alcamo: l’unica in tutta Europa. La Banca Sicula (controllata dalla P2 di Gelli) esplose con i profitti da eroina e giunse ad avere sessanta sportelli. Nel 1988 aumentò il suo capitale di 30 miliardi di lire, prima di confluire nella Comit nel 1991 e infine in Banca Intesa.
Il patriarca don Ciccio, formalmente latitante, morì di infarto nel suo letto. Era il 30 novembre 1998; sopra il pigiama qualcuno gli mise un vestito scuro e ai piedi le scarpe lucide e la salma venne depositata sotto un ulivo alle porte di Castelvetrano. Qui – teatralmente – la moglie lo coprì con una pelliccia di astrakan e gli mise due santini nella tasca della giacca. Il vescovo di Trapani mandò subito un prete ad assicurare che su don Ciccio solo Dio poteva giudicare. Il patriarca lasciava due figli. Salvatore, discreto dirigente della Banca Sicula, era stato appena condannato per mafia. Il secondo, Matteo, è la primula rossa di cui oggi si parla come dell’ultimo capo di Cosa Nostra.
“Don Ciccio”, capomandamento di Castelvetrano, campiere del feudo dei D’Alì, i proprietari della Banca Sicula, poi acquisita dalla Comit (muore nel 1998 durante la latitanza). Lui e il fratello Salvatore si possono dire amici d’infanzia dei figli dei D’Alì, tra cui Antonio (sottosegretario al ministero dell’Interno, nel secondo e terzo governo Berlusconi, dal 2001 al 2006). Salvatore diventò dipendente dei D’Alì quando fu assunto dalla Banca Sicula (è stato arrestato il 20 febbraio 2004 in esecuzione di un ordine di carcerazione per una condanna a 9 anni per associazione mafiosa ed estorsione). Quando fu arrestato, nel 1998, al padre (latitante da dieci anni), venne un infarto e morì (relazione Dna 2013).
• Prima che diventasse latitante tutti lo ricordano scorrazzare per Castelvetrano, quando su una Mercedes, quando su una Bmw, sempre in abiti di ottimo taglio e con Rolex al polso. Fama di femminaro, una delle sue amanti, Maria Mesi (del 65) per avergli dato ospitalità durante la latitanza – quando a Bagheria, quando a Palermo – è stata condannata per favoreggiamento. In uno degli appartamenti messi a disposizione fu trovato il giochino
Dalla Repubblica del 1991
La provincia di Trapani (28 comuni, 170 mila famiglie) è davvero un luogo strano. Mafiosissimo, da sempre massonico, quasi sempre impenetrabile. Basti dire che , l’ex sindaco di Trapani è un generale in pensione dai servizi segreti, convinto che la mafia non esista.
Qui le cose si vengono a sapere, quando si vengono a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo.Un esempio sono le tremila pagine di motivazione della sentenza che condanna all’ergastolo Vincenzo Virga, già capomafia di Trapani e il suo killer Vito Mazzara per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, nell’autunno del 1988. A 27 anni di distanza, si scopre che a dare l’ordine di uccidere quel pericoloso ficcanaso fu, nella quiete pastorale del latifondo D’Alì, proprio don Ciccio Messina Denaro e che quel segreto venne coperto da carabinieri, servizi segreti, magistrati che si adoperarono molto per depistare le indagini. Il tutto, raccontano quegli atti, avvenne in un contesto politico inquietante.
Storia trapanese
Don Ciccio Messina Denaro si era alleato con i corleonesi, da cui guerra, bombe e stragi. La mafia trapanese era moderna e tra i suoi tanti affari, era in società con le nuove televisioni della Fininvest, al punto che Virga, il capomafia di Trapani, fungeva da «recupero crediti» per il capo di Publitalia Marcello Dell’Utri. Quando la Fininvest entrò in politica, fu il boss Virga a fondare Forza Italia a Trapani e a scegliere come candidato il barone Antonio jr. D’Alì, che conquistò – a mani basse – il collegio senatoriale, nel 1994.
Pochi anni dopo D’Alì si sistemò al Viminale e la cosa – erano tempi di berlusconismo trionfante e di opinione pubblica debole – passò praticamente inosservata.
Unico squarcio, nel 2009, una tanto clamorosa quanto poco conosciuta intervista della giornalista Sandra Amurri a Maria Antonietta Aula, moglie divorziata del senatore-sottosegretario Antonio
Vi si narrava del piccolo MMD tenuto sulle ginocchia, del patriarca don Ciccio, di lussuosi regali di nozze, delle affettuosità che legavano le due famiglie. E anche di un arrivo, nel favoloso palazzo di Trapani, di Silvio Berlusconi, nel 1996, preceduto da 7 bauli di indumenti e profumi e con tanto cerone addosso da distruggere le vecchie federe del secolare palazzo.
In tale contesto, la latitanza e la crescita di potere di MMD furono facili.
Un prefetto coraggioso, Fulvio Sodano, venne brutalmente sostituito; un valente commissario di polizia, Giuseppe Linares, che MMD l’avrebbe preso facilmente, venne messo in condizioni di non nuocere e infine trasferito. Un altro poliziotto, il capo della squadra mobile Calogero Germanà, addirittura scampato a una mitragliata di kalashnikov di MMD, venne mandato via dalla Sicilia. Era lo stesso poliziotto che aveva denunciato il riciclaggio di denaro mafioso nella Banca Sicula.
Se la storia è destinata a ripetersi, anche Matteo, prima o poi, sarà esposto al pubblico. In un cortile di Castelvetrano o in una suite di Caracas. Ma un’impalpabile sensazione ci fa dire che non siamo ancora pronti per l’evento.
Forse MMD non esiste più. Forse il figlio di don Ciccio, il bambino che stava sulle ginocchia del viceministro degli interni, è già diventato un hedge fund.
E quando sapremo di quali protezioni ad altissimo livello gode Matteo? La risposta è facile: mai.
Nella foto: la celebrazione del Cinquantenario della Banca Sicula, Trapani 22 aprile 1933.
Fonte: la Repubblica, Dago Spia, Il Giornale
Il Circolaccio
Salvo Serra
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