Le ragioni di Fiammetta, l’insopportabile silenzio. Chi ha depistato, continua a depistare?
Lo Stato se non riuscirà a sapere la verità sulle stragi, non potrà essere credibile
Fiammetta Borsellino ha esternato tutte le sue perplessità sulle investigazioni ed i processi che per diciassette anni hanno impedito alla giustizia di imboccare la strada maestra per scoprire la verità sull’eccidio di Via D’Amelio.
E’ stato un depistaggio da manuale che è finito solo quando un uomo con decine di morti nella coscienza, Gaspare Spatuzza, ha raccontato come stavano le cose per iniziare un percorso di redenzione, che sembra credibile. C’è da restare smarriti difronte all’impotenza della giustizia che anche a causa del tempo trascorso non è in grado di individuare responsabilità, colpose o dolose, nel depistaggio. Non ci sono nemmeno appigli utili per giudicare gli errori – magistrati, poliziotti, testi – che hanno consentito la lunga “vacanza” dell’inchiesta.
C’è stata una regia? E’ stato pianificato il depistaggio? Coloro che hanno dato in pasto alle giurie degli imputati innocenti, hanno avuto consapevolezza della loro superficialità, o erano consenzienti, facevano parte di una rete di complicità ?
Ci sono due episodi che vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori e che testimoniano la qualità del lavoro investigativo fatto sulle stragi del ’92 a Palermo e Capaci. IL primo riguarda Capaci. Nei mesi che precedettero l’attentato uno dei personaggi più importanti della celebre Pizza Connection, commercialista e collaboratore di giustizia negli USA, Salvatore Amendolito, svolse un paziente e tenace lavoro di persuasione perché il 41 bis e le “leggi speciali” fossero riconsiderate dal governo e dal Parlamento italiani. Inviò dossier a tutte le autorità dello Stato, anche a Giovanni Falcone.La guerra che la mafia aveva ingaggiato contro lo Stato avrebbe provocato lacrime e sangue, ripetava come un mantra. Cosa nostra, era questo il leit motiv nelle sue conversazioni con i giornalisti (tra i quali chi scrive), rispetta le regole di “guardie e ladri”. Se vengono usate leggi speciali, come il 41 bis, è giocoforza che la guerra sia combattuta con armi e metodi speciali, inusuali anche per la mafia. Quindi, meglio tornare alle “regole”.
Queste motivazioni e ragionamenti vennero fatti ad alcuni giornalisti e alla luce di quanto è avvenuto, potrebbero avere contribuito a focalizzare l’attenzione sul 41 bis come movente unico per le stragi. Le modalità eclatanti scelte – i bersagli avrebbero potuto essere colpiti senza coinvolgere decine di persone – segnalano però la scelta di colpire in modo da ottenere effetti a raggiera, per esempio la destabilizzazione del Paese e una svolta nel processo di unificazione europea (Mahstricht).
Il terrorismo di Cosa nostra avrebbe provocato una prevedibe reazione dello Stato. Non il patto, seguito alla cosiddetta trattativa, ma un irrigidimento delle misure di sicurezza ed un’azione di contrasto più efficace, oltre che una presa di coscienza dell’opinione pubblica. La mafia siciliana comincia a morire come hub internazionale del crimine – e soggiacere alle altre organizzazioni criminali – proprio con le stragi, oltre che con la fine del bipolarismo mondiale.
Quale input (e da dove) avrebbe ricevuto Cosa nostra per intraprendere un percorso d’azzardo? Perché il nome di un personaggio chiave – americano fino al midollo – come Salvatore Amendolito, non è mai venuto fuori? Quando Pietro Grasso promette la verità, potrebbe esplorare strade finora ignorate.
L’altro episodio riguarda la strage di Via D’Amelio. Nello stabile in cui abitava la madre di Paolo Borsellino, aveva casa un gran galantuomo che mi raccontò un particolare. Nel luogo designato per l’attentato i bambini sono soliti giocare. Accadde nella tarda mattinata qualcosa di strano in Via D’Amelio. I bambini furono invitati a tornarsene a casa, o comunque a andarsene. Non so se il mio interlocutore abbia visto personalmente quel che accadeva o sia stato a sua volta informato. Riferii in un articolo, il particolare che avevo appreso, omettendo l’identità dell’informatore. Il quale però, dopo averlo letto, incontrandomi, espresse il suo rammarico – nessuna paura – per la mia scelta di raccontare l’episodio. A lui sarebbero risaliti assai facilmente, osservò, con un sorriso amaro sulle labbra. Trenta giorni dopo quel galantuomo se ne andò all’altro mondo. Cirrosi epatica, fulminante. Non riesco a dimenticare, non riesco a non farmi domande. Tante domande.