Quando Matteo Messina Denaro
voleva rubare il satiro danzante
(nella foto principale la sua tenuta di Castelvetrano)
Il sequestro dei beni di Becchina svela le trame oscure del padrino di Castelvetrano.
Citato nelle informative antimafia. Accostato ai Messina Denaro. Tirato in ballo da una raffica di pentiti. Eppure Gianfranco Becchina è uscito sempre indenne dalle inchieste. L’ha fatta franca, salvato anche dalla prescrizione. Ora è arrivato il sequestro dei beni da parte della Direzione investigativa antimafia di Trapani, guidata dal capo centro Rocco Lopane.
Becchina possiede anche metà del Palazzo Pignatelli al confine con la sede comunale e per un certo periodo di tempo , collaborava con i suoi articoli anche con alcune riviste cartacee locali , giornali online e blog di Castelvetrano e di altri comuni. Faceva l’opinionista. Il suo patrimonio ammonta decine di milioni di euro
E raccontava nei suoi articoli di aver trattato affari con i maggiori musei del mondo. Ma, adesso, scatta il sequestro per il patrimonio di Gianfranco Becchina, che ormai fa il produttore di olio (si vanta di essere stato uno dei fornitori della casa Bianca ai tempi di Clinton e Bush)
Già nel 2015 Repubblica scriveva: In Svizzera c’erano cinque depositi pieni di reperti archeologici di grandissimo valore. A breve, dopo una battaglia burocratica, saranno presentati in Italia. Ma il vero patrimonio ritrovato dagli inquirenti è l’archivio segreto dei trafficanti. Migliaia di foto e documenti che riportano provenienza, valore, destinazione e acquirenti di capolavori scomparsi da anni. Il dossier, cercato a lungo dai carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio e dall’Fbi, permette di ricostruire decenni di razzie. E il primo risultato è stato chiarire la provenienza della “Bella Addormentata”, splendido sarcofago romano recuperato negli Stati Uniti. Tutto questo all’ombra di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss di Cosa Nostra ancora latitante”
È siciliano il più grande intermediario del traffico illecito di opere d’arte. Giovanni Franco Becchina, che tutti chiamano Gianfranco, 78 anni, è il protagonista di una storia che parte da Castelvetrano e fa il giro del mondo. L’ultima tappa – Basilea – era stata scoperta dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico che alcuni anni fa restituirono allo Stato più di cinquemila reperti archeologici trafugati con scavi clandestini in Sicilia, Puglia, Sardegna e Calabria, di epoca compresa tra l’VIII secolo avanti Cristo e il III dopo Cristo, rimpatriati dalla città svizzera. C’erano anfore, crateri, loutrophoros, oinochoe, kantharos, trozzelle, vasi plastici, statue votive, affreschi, corazze in bronzo, per un valore complessivo che supera i 50 milioni di euro. L’indagine, denominata Teseo, ebbe inizio a margine dell’inchiesta che portò al recupero del famoso vaso di Assteas dal Getty Museum di Malibù.
La parabola della sua vita sta tutta nel fatto di essere riuscito a diventare proprietario dell’albergo di Basilea dove aveva iniziato a lavorare come fattorino. In mezzo ci sono tanti altri investimenti: dalla sua azienda siciliana “Olio Verde”, nelle campagne tra Castelvetrano e Selinunte, proviene un apprezzato prodotto capace di conquistare una grossa fetta di mercato internazionale, finendo pure sulla tavola della Casa Bianca. E poi c’è la passione per l’arte che lo ha portato a riempire cinque magazzini a Basilea di opere d’arte. Le tracce dei reperti erano state seguite dai carabinieri in giro per il mondo: Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia e Inghilterra. Nel 2001 Becchina finì pure in carcere per furto, ricettazione ed esportazione clandestina mentre sua moglie, anche lei accusata di essere sua complice, finiva in manette in Svizzera. Lo Stato non è riuscito, però, a processarlo in tempo e i reati sono andati prescritti.
Ci ha sempre saputo fare Becchina. La passione per le opere d’arte nacque in lui quando conobbe la moglie, di origine tedesca, che lavorava nella bottega svizzera di un antiquario. Pochi anni dopo era già il riferimento di grandi collezionisti e dei più prestigiosi musei del mondo. All’inizio degli anni Ottanta rifilò per venti miliardi di vecchie lire al Getty Museum di Malibù una statua di dubbia provenienza. E sempre al Getty della città californiana piazzò il cratere di Assteas. L’ha sempre fatta franca, così come ha sempre spedito al mittente le ricostruzioni giudiziarie che lo accostavano alla potentissima famiglia mafiosa dei Messina Denaro.
E qui la pagina della vita di Becchina si fa oscura, anche se le informative degli investigatori non hanno trovato alcuno sbocco processuale. I carabinieri del Reparto operativo del Nucleo tutela patrimonio culturale di Roma hanno raccolto gli input investigativi della Direzione antimafia di Palermo e Trapani. Tra i contatti di Becchina era inserito il nome di Giuseppe Fontana, finito sotto inchiesta. Fontana, nelle vecchie carte giudiziarie, risultava indagato per una rapina messa a segno a metà anni degli anni Ottanta ai danni dell’Hotel Drei Konige di Basilea. C’era il sospetto che dietro il colpo ci fosse proprio Messina Denaro e si parlò della misteriosa presenza del latitante in un albergo elvetico dal quale avrebbe chiamato Becchina al telefono.
In un altro hotel dove aveva soggiornato Fontana fu trovato un biglietto da visita con l’intestazione “Agenzia Guarnaccia”. Umberto Guarnaccia era l’intestatario di uno dei cinque magazzini dove erano state stipate le opere d’arte tornate al patrimonio dello Stato. Guarnaccia era pure il proprietario di un’agenzia di cambio in Svizzera. È lì che il collaboratore di giustizia Francesco Geraci raccontò nel 2004 di essersi recato assieme a Fontana su indicazione di Messina Denaro. Tra Guarnaccia e Becchina c’erano stati contatti nei giorni precedenti alla trasferta siciliana, a bordo di un aereo privato, del magnate di un colosso dell’abbigliamento sportivo. Era il 2001.
Non è finita: Becchina faceva parte del consiglio di amministrazione dell’Atlas cementi di Mazara del Vallo. La Atlas, oggi confiscata, era di proprietà di Rosario Cascio, prestanome di Messina Denaro, che ha già scontato una condanna definitiva per mafia. Ce n’era abbastanza per fare ipotizzare ai carabinieri che Becchina avesse avuto rapporti con i Messina Denaro, interessati ai traffici di reperti archeologici. Un interesse antico tramandatosi di padre in figlio.
Fu Francesco Messina Denaro, il padre del latitante, ad organizzare il furto dell’Efebo di Selinunte, nel 1962. La piccola statua greca sparì dalla scrivania del sindaco di Castelvetrano. I ladri cercarono di piazzarla in America e Svizzera. Poi chiesero, senza ottenere neppure una lira, un riscatto di 30 milioni al Comune trapanese. Infine, il 14 marzo del 1968, l’Efebo fu recuperato dalla polizia a Foligno, in Umbria.
Infine c’è il capitolo pentiti. Giovanni Brusca, spietato killer di San Giuseppe Jato, nel 2004 dichiarò che Matteo Messina Denaro aveva ereditato dal padre “l’amore e la passione” per l’archeologia e l’arte. E aggiunse che il latitante una volta gli fece incontrare Becchina, riconosciuto da lui in foto, che gli avrebbe dovuto fare recuperare un reperto che valeva un miliardo e mezzo di lire. Doveva essere “merce di scambio” con lo Stato per ottenere benefici carcerari per i detenuti.
La passione per l’arte del boss di Castelvetrano avrebbe conosciuto il suo macabro apice quando, raccontò Brusca, Messina Denaro scelse di colpire i luoghi d’arte a Roma e Firenze nelle stragi del 1993. Di Becchina riferì anche un altro pentito che di affari si intendeva parecchio, quell’Angelo Siino che si guadagnò sul campo l’appellativo di ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra.
A Becchina attribuiva il ruolo di riciclatore dei soldi accumulati illecitamente dalla mafia investendoli nel mercato illegale dei reperti archeologici. Ed un altro pentito di mafia, Concetto Mariano, un ex vigile urbano nel libro paga del clan di Marsala, raccontò dell’incredibile progetto organizzato, e per fortuna non realizzato, da Matteo Messina Denaro per rubare il “Satiro danzante” ripescato nel mare di Mazara del Vallo. Lo voleva rivendere, a suon di milioni, ad un collezionista straniero. Qualcuno, alla fine, si tirò indietro, e non se ne fece più nulla.