Vincenzo Calcara, come Vincenzo Scarantino, autore del depistaggio sulla strage di via D’Amelio, aveva provato a ritrattare le proprie dichiarazioni.
27 Maggio 1992, ore 16:00. Vincenzo Calcara, il “pentito” che si definiva “uomo d’onore riservato” di Francesco Messina Denaro, allo stato detenuto, prende un foglio di carta e scrive: “Tutti quelli che ho accusato nessuno è mafioso e sono tutti innocenti a cominciare da Agate Mariano Mangion e complici e l’ex Sindaco Vaccarino è lui il primo a essere innocente…”
Quel foglio è da trasmettere via fax ai ministri Scotti e Martelli, all’Alto commissario antimafia Finocchiaro, ai magistrati Borsellino, Natoli, Lo Voi, al procuratore di Palermo Pietro Giammanco e al Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Barreca.
Sono trascorsi appena quattro giorni da quel fatidico 23 maggio in cui la mafia – ma non solo quella – aveva compiuto la strage di Capaci fermando per sempre il giudice Giovanni Falcone, impegnato sul fronte delle indagini Mafia-Appalti, quando Calcara scrive in stampatello quella lettera con la quale ritratta le accuse rivolte nei confronti delle persone che aveva indicato come coinvolte nell’omicidio dell’allora sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ucciso il 13 agosto 1980.
Tutti nomi noti alle cronache fin dal giorno dell’omicidio (compreso quello del boss catanese Nitto Santapaola non menzionato nella lettera) tranne quello di Antonio Vaccarino, bersaglio di pesanti accuse di coinvolgimento in fatti di mafia da parte del solo “pentito” Calcara. Accuse dalle quali venne assolto.
Non era questa la prima volta che Calcara parlava dell’omicidio di Vito Lipari. Lo aveva già fatto il 15 ottobre 1983, quando, detenuto in Germania, scrisse una lettera all’avvocato Pantaleo, suo difensore, chiedendogli consigli. In questa sua missiva faceva riferimento al fatto di essere stato indagato per due omicidi, tra i quali quello dell’ex sindaco Vito Lipari.
“Di questi due omicidi io sono estraneo a tutto – scriveva Calcara nel 1983 – e non so niente di niente. Quindi la mia idea sarebbe questa che io ho delle rivelazioni da fare riguardo questi due omicidi e ovviamente qualche confronto. Di tutto questo penso che la magistratura italiana avrà un po’ di interesse che io sia in Italia per essere interrogato…”
Un escamotage per essere estradato in Italia, visto che in Germania il carcere era troppo duro. Come lui stesso confermerà anni dopo, si trattava solo di prendere in giro la magistratura italiana. Eppure, nonostante nella sua lettera all’avvocato Pantaleo dichiarasse che una volta ottenuta l’estradizione avrebbe confessato la messinscena, rischiando al massimo un’accusa per calunnia, nel 1992, quasi dieci anni dopo, la messinscena continuava e Calcara si trasformava nel pentito che tutti conosceva e tutto sapeva, anche di quell’omicidio di Vito Lipari del quale nove anni prima ammetteva di non saper nulla.
27 Maggio 1992, lo stesso giorno della lettera scritta a stampatello, Calcara ne firma altre due. A differenza della prima queste sono in corsivo. Le tre lettere, nonostante portino la stessa data, sembrerebbero scritte in due diversi momenti e presentano una proprietà linguistica di un diverso livello culturale dell’autore, che pure dovrebbe essere lo stesso anche di altri scritti che potete leggere in fondo all’articolo.
Il primo giugno, cinque giorni dopo la ritrattazione delle accuse, il “pentito” torna a confermarle. “Il giorno 29 maggio u.s. (non giorno 27, come riportato nelle tre missive – ndr) preso dallo sconforto alla notizia dell’attentato subito dal dott. Falcone, e dalle sue terribili modalità mi sono sentito perduto – dichiara Calcara – poiché toccavo quasi per mano, attraverso le immagini televisive, la capacità sconvolgente di Cosa Nostra e le sue possibilità di azione e di vendetta, in grado di superare qualsiasi genere di protezione. Ho pensato intensamente alle mie figlie, che una tale potenza criminale è in grado di raggiungere dovunque, e nello stato di agitazione tremenda in cui mi trovavo afferrai un foglio di carta […] e vergai alcune righe con grafia che addirittura è diversa da quella mia normale (…)”
Vincenzo Calcara, come Scarantino, il falso pentito del depistaggio sulla strage di via D’Amelio, aveva ritrattato tutto, per poi tornare a confermare le accuse mosse in precedenza.
Calcara giustificò la ri-ritrattazione perché impaurito dalle possibili conseguenze di quanto dichiarato. Un timore comprensibile, visto che per un omicidio del quale aveva ammesso di non saper nulla (ma siamo in un periodo in cui i magistrati non erano ancora a conoscenza della lettera all’avvocato Pantaleo) aveva finito con l’accusare mafiosi del calibro di Nitto Santapaola, successivamente assolti.
Sembrerebbe quasi che il pentito in un primo momento avesse deciso di dire la verità di sua conoscenza, ovvero che del delitto Lipari non sapeva nulla, mentre con le due in corsivo, probabilmente successive a quella in stampatello successive (seppur riportanti la data dello stesso giorno) pur scagionando le persone da lui accusate, lascia intuire di aver timore per la propria incolumità e per quella dei suoi familiari, quasi l’anticipazione di quello che dichiarerà nel corso dell’interrogatorio di pochi giorni dopo.
Perché, come dichiarò a verbale, scrisse alcune righe con grafia diversa dalla sua? Questo particolare, non insospettì nessuno? Perché confrontando alcuni scritti di Calcara la grafia sembra diversa? Appartengono a lui le due lettere scritte in corsivo?
Calcara, prima dell’interrogatorio del primo giugno, ricevette visite? Chi o cosa eventualmente convinsero Calcara a smentire la ritrattazione e tornare a ribadire accuse in merito a fatti dei quali non sapeva nulla?
Di Scarantino, recentemente, abbiamo saputo che durante quel periodo era intercettato e, improvvisamente, si sono trovate bobine e brogliacci che danno adito a inquietanti interrogativi in merito a contatti e conversazioni con soggetti appartenenti alle istituzioni. Calcara venne mai intercettato?
Perché dopo aver tessuto per anni le lodi dell’allora maresciallo Carmelo Canale, in epoca più recente ne adombra la figura lasciando intuire che tradì il giudice Paolo Borsellino? E ancora, perché dopo aver elogiato Angelo Finocchiaro, Alto Commissario Antimafia, nei suoi memoriali scrive: “Secondo me Finocchiaro si era venduto Borsellino alla grande […] Era l’autentica propaggine metastatica delle Entità: pericoloso e venduto. Non capivo ancora che genere di losco mercimonio stesse attuando, però mi era chiaro che Borsellino e Finocchiaro erano come Cristo e Giuda nel quadro di Giotto”?
Troppe domande, troppi misteri, a partire dall’indagine mafia e appalti, voluta da Giovanni Falcone, e poi ripresa da Borsellino, la cui richiesta di archiviazione, vistata dal procuratore Giammanco, venne depositata tre giorni dopo la strage di via D’Amelio e archiviata a tempo record.
Calcara, a differenza sua, se dovesse ammettere di aver dichiarato il falso (così come ben si evince dalla vicenda Vito Lipari, della quale in tempi non sospetti aveva dichiarato di non sapere nulla) si sarebbe reso responsabile, consapevolmente o meno, di un depistaggio antecedente alle stragi, quello che favorì Matteo Messina Denaro nel compimento delle stesse. Chi altri, più o meno consapevolmente, avrebbero favorito l’eventuale depistaggio?Scarantino, da quanto emerge dalle indagini e dagli atti processuali, fu vittima di imposizioni che lo costrinsero a un depistaggio perchè restassero impuniti gli autori della strage Borsellino, ma, seppur a distanza di molti anni, ha potuto narrare la sua verità, scagionare chi per lunghissimi anni marcì ingiustamente in carcere a causa delle sue propalazioni, e contribuire al tentativo di far luce sulle collusioni o le complicità istituzionali.
Forse, se Calcara fosse stato interrogato in merito a queste “anomalie”, Borsellino sarebbe ancora vivo o quantomeno, visto che molti fatti si scoprirono solo successivamente alla strage di via D’Amelio – come ad esempio la lettera che Calcara scrisse al suo avvocato nel 1983 – la latitanza di Matteo Messina Denaro non sarebbe durata così a lungo, trasformandosi in un’autentica vergogna per lo Stato italiano.
Troppe analogie con la vicenda di Scarantino, perché non si voglia far piena luce su una collaborazione che, nonostante le dichiarazioni di pentiti e quanto riportato in diverse sentenze, solo nell’ultimo periodo è stata oggetto di più attente analisi portate a conoscenza dell’opinione pubblica, che hanno fatto emergere tanti punti oscuri per decenni sottovalutati o ignorati. Artatamente? Non spetta a noi scoprirlo…
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