Da Giletti a Tutino e Filicudi
Gli amori sciagurati di Crocetta
Con la scadenza di Rosario Crocetta – il governatore di Sicilia ormai agli sgoccioli – si chiude un capitolo di Sexual Personae. Solo col paradigma di Camille Paglia, infatti – il deliberato sensazionalismo della rappresentazione sessuale – tutto il suo chiodo schiaccia chiodo, quel levare uno per metterne un altro, trova spiegazione.
Sono 47 gli assessori cambiati in corso d’opera, altro che Virginia Raggi a Roma. Con la canzone di Lucio Battisti, Dieci ragazze, lui – lui che pure dichiarò pubblica castità – può ben cantare: “Dieci assessori per me, non posson bastare…”.
Melodrammatico di suo, Crocetta è mobile: qual piuma al vento. Per non dire dell’indirizzo politico. Passa, come niente, dal No Muos al Sì Muos.
Il radar dell’esercito americano che in campagna elettorale non vuole far costruire nel sughereto di Niscemi – a protezione della salute dei siciliani – diventa necessario, strategico e imprescindibile appena eletto governatore.
E le province, poi, cancellate d’imperio durante una puntata dell’Arena di Massimo Giletti, giusto alla fine della legislatura sono riportate in vita ma nel frattempo lui – furba Penelope – nomina i propri commissari di fiducia.
Crocetta getta gli ossi ai Proci desiderosi d’impossessarsi del talamo, quindi fa e disfa la tela di governo, ed è così che da subito piazza nel sottogoverno quel che per lui, più che un destino, è una romance: Antonino Ingroia.
Il temuto ex Pm è messo a capo della commissariata provincia di Trapani affinché lo storytelling sensazionalista, concentrato su Castelvetrano, abbia una suggestione irresistibile: arrestare il latitante Matteo Messina Denaro. Come solo lui sa fare.
Il canone è presto svelato: la Principessa e il Drago. La Sicilia – e per traslato l’isola non può che essere Crocetta – trova in Ingroia il prode che sconfigge il bestio immondo, l’imprendibile capo di Cosa Nostra, e finalmente lo prende.
Altro che la storia della mafia di Michele Pantaleone, qui non c’è la rude tinta agreste di Villalba. La policromia è tutta di pastelli e qui, dunque, urge Walt Disney. I sogni sono desideri e poco importa che nel frattempo, nell’attesa della resurrezione delle province, Ingroia abbia preso solo lo stipendio; quel che vale nel codice di Sexual Personae è l’emotività dominante nell’ora qua, ora là propria dell’eroina svagata. Una divinità della sventatezza giammai contestata – va da sé – da alcuno.
Il cavaliere purissimo – tale è Ingroia – consuma il bruciante atto d’amore con la Principessa sotto l’ala di ben altro Drago. Inesorabile più del castelvetranese latitante.
La principessa di questo edificante roman – sebbene ondivaga, volubile e viziata – ha un sovrano remoto cui tributare leale obbedienza. Più che un Re è attualmente un senatore. E’ un veterano della casta – quattro legislature da deputato, più altre due a Palazzo Madama – è il temutissimo, rispettatissimo, severissimo Beppe Lumia da Termini Imerese che difficilmente uscirà dal retropalco di borotalco di cui è supremo regista.
L’ammontare del suo stipendio – il cumulo delle pensioni, i contributi, il monte premio dovuto al potere – è perfetto per farci almeno quattro scalette dell’Arena di Massimo Giletti, se mai ci fosse ancora su Rai1. E se mai Giletti rinunciasse a fare il Guido Cavalcanti di Crocetta, dovremmo però dire, visto che di tutto quel pittoresco pasticcio di Sicilia il Massimo ne ha cantato la corte con il Beppe i vorrei che tu, Ingroia e io fossimo presi per incantamento… ma adesso si rischia il fuori tema perché comunque – come si dice? – è la somma che fa il vitalizio. E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che il Beppe non trovi una prossima legislatura dove accasare le sue toniche terga.
Colpo di scena. La vera Principessa è Lumia e Crocetta esce di scena, dunque, come la crocetta di Sicilia. E tutto il questo o quello – che per lui pari fu – è una messa in scena di capricci. E si salta il melodramma per l’approdo più consono: il fotoromanzo.
La cronistoria di cinque anni di governo si sfarina nella malinconia del non sapere come uscire: il suo partito, il Pd, candida Fabrizio Micari, il rettore dell’università di Palermo, alla sua successione e lui – come Emma Gramatica aggrappata alle tende – insiste sulla richiesta delle primari: rifiuta il ticket di retrocessione al ruolo di vice convinto davvero di avere risollevato la Sicilia e com’è tipico dei tramonti affrettati è nel metterci una crocetta sopra che si chiude il tutto.
Vice e non vice, la Sicilia è pur sempre la terra maschia dove sopra al Re c’è sempre il Viceré, e questo solo Lumia lo sa. Ma non si deve scantonare rispetto al grande romanzo degli amori perduti di Crocetta. E’ un rosario, quello di Rosario, di figurine apparse e subito scomparse; come agli inizi, dove lo sfizio di fare un governo sfizioso si rivela presto un happening dell’eccentricità con Franco Battiato e Antonino Zichichi, rispettivamente un sommo artista e uno scienziato – nomi nati nella giunta di Governo agli inizi – subito dismessi più che dimessi.
Battiato è assurdamente licenziato da Crocetta in nome della correttezza ideologica. L’autore di Povera Patria giustamente liquida come troie i politicanti alla cerca di prebende, pronti a ogni trasformismo, ma il termine è eccepito – aita, aita! – quale sessista.
Stordito dalle stalle clientelari Zichichi se ne torna tra le stelle delle sue pensate astronomiche e così i primi campioni della più squillante comunità dei saputi, prontamente sostituiti da comparse reclutate nel sottobosco delle trattative, sono amori dimenticati – ma in tanti avranno il benservito – bizzarrie archiviate tra le smanie di un Dorian Gray, di un Lord Byron o di una Lauren Bacall, la musa-vampiro nel “questo o quello” umorale dell’ora sì, ora no.
Ora sì, ora no nella contradanza di assessorine – la Michela Stancheris, la Nelli Scilabra – pronte nel cambio di ruolo: dalla giunta di governo alla condizione di segretaria. E viceversa. E sempre per assecondare il capriccio. Per non dire del deliberato sensazionalismo.
Il chiodo Matteo Tutino schiaccia il chiodo Lucia Borsellino. Dovendo scegliere tra la sua assessore alla Sanità – fiore all’occhiello della legalità – e l’amico medico, specialista in chirurgia estetica, Crocetta sa dove martellare. Schioda senza alcun dubbio lei, la figlia di Paolo Borsellino, che nell’andarsene via trascina a sé il non detto per eccellenza. Eccolo: lei – nessuno lo ricorda – non vuole neppure più mettere piede in Sicilia. All’indomani delle sue dimissioni il fratello di lei, Manfredi Borsellino, si stringe in un muto quanto chiassoso abbraccio con Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica.
Come la principessa sul pisello Crocetta l’avverte questo strano fastidio sotto il suo materasso – la ben chiara scelta di campo delle Istituzioni, tutte al fianco di Lucia – ma si sorvola, fa finta di nulla e si destina a Tutino che ne ha ben d’onde di capirne di sanità siciliana. Fino a lasciare nelle carte della magistratura quel dettaglio che dice e non dice di tutta una brillante stagione. Non l’inesistente intercettazione in cui Tutino avrebbe auspicato la nemesi familiare sull’assessore a lui ostile, no; bensì lo “sbiancamento anale”. Un trattamento di cosmesi intima e però considerata assai glamour. Pare in gran voga tra i libertari libertini liberati.
Sono amori tutti perduti. Fatta salva la castità – annunciata in campagna elettorale, “niente sesso, sarò presidente” – gli innamoramenti si sono affollati nel vortice della più squinternata stagione politica pazza tutta d’impostura.
Crocetta entra in scena e mette subito a frutto il proprio marchio sessuale, tutto di emancipazione dei costumi e liberazione. Ne fa una rendita politica della sua omosessualità e da ogni parte del mondo arrivano curiosi – primi su tutti, i giornali americani – per raccontare la novità dell’isola retrograda e incivile finalmente emancipata e destinata alla civiltà gay friendly.
E’ così dentro al codice di Sexual Personae, lui, da sorgere tra i canneti di Gela, la sua città di origine, quale magmatico oggetto del desio. Come per Silvana Grasso, illustre scrittrice, la cui prosa – in tema di Crocetta – è ben più che avvampata, trasfigurata quasi, in un cartiglio dove comunque eros è l’amministratore delegato di questa fabula buffa.
Anni furono quando lei disse, ebbene sì, qualcosa ci fu, ma pizzichi e baci non lasciano buchi, la cosiddetta scelta sessuale piegata al mercato del consenso – “Tutti vogliono sapere con chi io vado a letto”, strepita lui nelle deliziose interviste che rilascia a Mario Barresi su La Sicilia – è parte della deriva trash. E’ il deliberato sensazionalismo di Sexual Personae.
Là dove non arriva l’antimafia, arriva l’esorcismo omofobo. Ancor più che mafioso, infatti, è l’omofobia a tracciare il solco della riprovazione sociale. Quanto più sei antimafioso tanto più è mafioso chi non la pensa come te anche sulla quantità d’acqua da dare alle papere, ma doppiamente garantito è chi – sul fronte sexual – se ne fa scudo.
Sotto traccia, nel sotto testo della patetica narrazione – sugellata da una fatwa omofoba inesistente – s’impone questa dottrina: i mafiosi, tutti machi, fanno la guerra a Crocetta più per il suo essere omosessuale che per il suo impegno di legalità.
La fissazione, giusto a ricordare il maestro Giuseppe Sottile, è “peggio della malattia”. In questo teatrino durato cinque anni – grazie alla complicità dei deputati regionali, fedeli allo stipendio, incapaci di dimettersi per porre fine all’impostura – il chiodo schiaccia chiodo s’è esercitato sugli attrezzi di scena. E accade perfino attraversando il casello dell’autostrada Siracusa-Gela, a Cassibile, dove a bordo di una delle cinque Audi blindate del presidente – un corteo, più che una scorta – Crocetta si prende un brutto spavento. La macchina è andata a sbattere per eccesso di velocità su un tratto ridotto a strettoia, e però presto il tutto è stato trasformato in un attentatone preparato dalle oscure trame retrogradi, incivili, mafiose e omofobe a uso e consumo della sceneggiata emozionale di aita, aita!
Nessuno mette in fila tutte le volte di tutte gli abbagli e gli allarmi. La vicenda ha un suo motivo erotico. E’ la famosa attrazione fatale del paracarro. Fu che il pilastro in cemento armato del casello si buttò addosso alla macchina dove viaggiava Crocetta, questo fu e già riderne – ancora oggi – rivela il volto bieco dell’omofobia.
Il sesso come cespite di una rendita politica quello di Crocetta che ribalta qualunque critica sulla sua sfacciata incapacità di governo in un sabba di consenso, costringendo tutti a una sorta di penitenziagite corale.
Chi avversa Crocetta è marchiato omofobo. E ne fa un tic del suo essere bizantino, non uno stile. Non è un’eleganza tutto il suo “desiderio di felicità”, piuttosto un’arma contundente. Da usare per neutralizzare qualunque dialettica politica.
Un suo assessore, Giovanni Pistorio, si lascia andare a delle battute da caserma sull’improvvisa smania del governatore di volere più traghetti per Filicudi. Le parole – maschie – vanno a finire nei brogliacci delle intercettazioni e Crocetta, su cui si apre l’indagine che vede inquisito l’armatore interessato alle rotte eoliane, riesce comunque a marchiare di conclamata omofobia l’assessore, moralmente condannato ancorché non indagato in quella vicenda. Carte cambiate in tavola come in una magia da magliari, e così è nella fantastica Sicilia del friendly pittoresco più che gay.
Si chiude quindi il capitolo di Sexual Personae in tema di Sicilia. E Barresi che non gli para il sacco a Crocetta – anzi, il contrario – da novello Camille Paglia lo fa uscire al naturale. Ed ecco le parole del presidente: “Se l’assessore Pistorio si fa dare il motoscafo per andare a prendere una donna, allora è macho, è femminaro. Se io vado a Filicudi per trascorrere una vacanza morigerata in mezzo alla natura, in un’isola dove l’ultimo presidente che c’è andato è Rino Nicolosi che gli portò la corrente elettrica, allora io sono una checca ossessionata dal sesso. Questa è omofobia, è sessismo. Lo stesso succede alle donne: se hanno successo non è perché magari sono davvero brave, ma perché sono zoccole e saltano da un letto all’altro.”
A parte il fatto che il suddetto Pistorio conosce Le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar come fosse l’Ave Maria – e perciò non può essere tacciato di ostilità verso gli arcobaleni – il maschio Giovanni, reietto, resta in un altro fatto: di essere il quarantaseiesimo assessore della giunta Crocetta costretto alle dimissioni.
Subito dopo lui c’è quello chiamato a chiudere la porta, il numero 47, morto che parla, per la Smorfia e se non fosse per l’omofobia sarebbe proprio da cambiare il nome al libro delle divinazioni oniriche: “la Mossa”. E più deliberato sensazionalismo sessuale di così, non si può. Altro che Marguerite Yourcenar, qui urge Ninì Tirabusciò.
Sono 47 gli assessori cambiati in corso d’opera, altro che Virginia Raggi a Roma. Con la canzone di Lucio Battisti, Dieci ragazze, lui – lui che pure dichiarò pubblica castità – può ben cantare: “Dieci assessori per me, non posson bastare…”.
Melodrammatico di suo, Crocetta è mobile: qual piuma al vento. Per non dire dell’indirizzo politico. Passa, come niente, dal No Muos al Sì Muos.
Il radar dell’esercito americano che in campagna elettorale non vuole far costruire nel sughereto di Niscemi – a protezione della salute dei siciliani – diventa necessario, strategico e imprescindibile appena eletto governatore.
E le province, poi, cancellate d’imperio durante una puntata dell’Arena di Massimo Giletti, giusto alla fine della legislatura sono riportate in vita ma nel frattempo lui – furba Penelope – nomina i propri commissari di fiducia.
Crocetta getta gli ossi ai Proci desiderosi d’impossessarsi del talamo, quindi fa e disfa la tela di governo, ed è così che da subito piazza nel sottogoverno quel che per lui, più che un destino, è una romance: Antonino Ingroia.
Il temuto ex Pm è messo a capo della commissariata provincia di Trapani affinché lo storytelling sensazionalista, concentrato su Castelvetrano, abbia una suggestione irresistibile: arrestare il latitante Matteo Messina Denaro. Come solo lui sa fare.
Il canone è presto svelato: la Principessa e il Drago. La Sicilia – e per traslato l’isola non può che essere Crocetta – trova in Ingroia il prode che sconfigge il bestio immondo, l’imprendibile capo di Cosa Nostra, e finalmente lo prende.
Altro che la storia della mafia di Michele Pantaleone, qui non c’è la rude tinta agreste di Villalba. La policromia è tutta di pastelli e qui, dunque, urge Walt Disney. I sogni sono desideri e poco importa che nel frattempo, nell’attesa della resurrezione delle province, Ingroia abbia preso solo lo stipendio; quel che vale nel codice di Sexual Personae è l’emotività dominante nell’ora qua, ora là propria dell’eroina svagata. Una divinità della sventatezza giammai contestata – va da sé – da alcuno.
Il cavaliere purissimo – tale è Ingroia – consuma il bruciante atto d’amore con la Principessa sotto l’ala di ben altro Drago. Inesorabile più del castelvetranese latitante.
La principessa di questo edificante roman – sebbene ondivaga, volubile e viziata – ha un sovrano remoto cui tributare leale obbedienza. Più che un Re è attualmente un senatore. E’ un veterano della casta – quattro legislature da deputato, più altre due a Palazzo Madama – è il temutissimo, rispettatissimo, severissimo Beppe Lumia da Termini Imerese che difficilmente uscirà dal retropalco di borotalco di cui è supremo regista.
L’ammontare del suo stipendio – il cumulo delle pensioni, i contributi, il monte premio dovuto al potere – è perfetto per farci almeno quattro scalette dell’Arena di Massimo Giletti, se mai ci fosse ancora su Rai1. E se mai Giletti rinunciasse a fare il Guido Cavalcanti di Crocetta, dovremmo però dire, visto che di tutto quel pittoresco pasticcio di Sicilia il Massimo ne ha cantato la corte con il Beppe i vorrei che tu, Ingroia e io fossimo presi per incantamento… ma adesso si rischia il fuori tema perché comunque – come si dice? – è la somma che fa il vitalizio. E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che il Beppe non trovi una prossima legislatura dove accasare le sue toniche terga.
Colpo di scena. La vera Principessa è Lumia e Crocetta esce di scena, dunque, come la crocetta di Sicilia. E tutto il questo o quello – che per lui pari fu – è una messa in scena di capricci. E si salta il melodramma per l’approdo più consono: il fotoromanzo.
La cronistoria di cinque anni di governo si sfarina nella malinconia del non sapere come uscire: il suo partito, il Pd, candida Fabrizio Micari, il rettore dell’università di Palermo, alla sua successione e lui – come Emma Gramatica aggrappata alle tende – insiste sulla richiesta delle primari: rifiuta il ticket di retrocessione al ruolo di vice convinto davvero di avere risollevato la Sicilia e com’è tipico dei tramonti affrettati è nel metterci una crocetta sopra che si chiude il tutto.
Vice e non vice, la Sicilia è pur sempre la terra maschia dove sopra al Re c’è sempre il Viceré, e questo solo Lumia lo sa. Ma non si deve scantonare rispetto al grande romanzo degli amori perduti di Crocetta. E’ un rosario, quello di Rosario, di figurine apparse e subito scomparse; come agli inizi, dove lo sfizio di fare un governo sfizioso si rivela presto un happening dell’eccentricità con Franco Battiato e Antonino Zichichi, rispettivamente un sommo artista e uno scienziato – nomi nati nella giunta di Governo agli inizi – subito dismessi più che dimessi.
Battiato è assurdamente licenziato da Crocetta in nome della correttezza ideologica. L’autore di Povera Patria giustamente liquida come troie i politicanti alla cerca di prebende, pronti a ogni trasformismo, ma il termine è eccepito – aita, aita! – quale sessista.
Stordito dalle stalle clientelari Zichichi se ne torna tra le stelle delle sue pensate astronomiche e così i primi campioni della più squillante comunità dei saputi, prontamente sostituiti da comparse reclutate nel sottobosco delle trattative, sono amori dimenticati – ma in tanti avranno il benservito – bizzarrie archiviate tra le smanie di un Dorian Gray, di un Lord Byron o di una Lauren Bacall, la musa-vampiro nel “questo o quello” umorale dell’ora sì, ora no.
Ora sì, ora no nella contradanza di assessorine – la Michela Stancheris, la Nelli Scilabra – pronte nel cambio di ruolo: dalla giunta di governo alla condizione di segretaria. E viceversa. E sempre per assecondare il capriccio. Per non dire del deliberato sensazionalismo.
Il chiodo Matteo Tutino schiaccia il chiodo Lucia Borsellino. Dovendo scegliere tra la sua assessore alla Sanità – fiore all’occhiello della legalità – e l’amico medico, specialista in chirurgia estetica, Crocetta sa dove martellare. Schioda senza alcun dubbio lei, la figlia di Paolo Borsellino, che nell’andarsene via trascina a sé il non detto per eccellenza. Eccolo: lei – nessuno lo ricorda – non vuole neppure più mettere piede in Sicilia. All’indomani delle sue dimissioni il fratello di lei, Manfredi Borsellino, si stringe in un muto quanto chiassoso abbraccio con Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica.
Come la principessa sul pisello Crocetta l’avverte questo strano fastidio sotto il suo materasso – la ben chiara scelta di campo delle Istituzioni, tutte al fianco di Lucia – ma si sorvola, fa finta di nulla e si destina a Tutino che ne ha ben d’onde di capirne di sanità siciliana. Fino a lasciare nelle carte della magistratura quel dettaglio che dice e non dice di tutta una brillante stagione. Non l’inesistente intercettazione in cui Tutino avrebbe auspicato la nemesi familiare sull’assessore a lui ostile, no; bensì lo “sbiancamento anale”. Un trattamento di cosmesi intima e però considerata assai glamour. Pare in gran voga tra i libertari libertini liberati.
Sono amori tutti perduti. Fatta salva la castità – annunciata in campagna elettorale, “niente sesso, sarò presidente” – gli innamoramenti si sono affollati nel vortice della più squinternata stagione politica pazza tutta d’impostura.
Crocetta entra in scena e mette subito a frutto il proprio marchio sessuale, tutto di emancipazione dei costumi e liberazione. Ne fa una rendita politica della sua omosessualità e da ogni parte del mondo arrivano curiosi – primi su tutti, i giornali americani – per raccontare la novità dell’isola retrograda e incivile finalmente emancipata e destinata alla civiltà gay friendly.
E’ così dentro al codice di Sexual Personae, lui, da sorgere tra i canneti di Gela, la sua città di origine, quale magmatico oggetto del desio. Come per Silvana Grasso, illustre scrittrice, la cui prosa – in tema di Crocetta – è ben più che avvampata, trasfigurata quasi, in un cartiglio dove comunque eros è l’amministratore delegato di questa fabula buffa.
Anni furono quando lei disse, ebbene sì, qualcosa ci fu, ma pizzichi e baci non lasciano buchi, la cosiddetta scelta sessuale piegata al mercato del consenso – “Tutti vogliono sapere con chi io vado a letto”, strepita lui nelle deliziose interviste che rilascia a Mario Barresi su La Sicilia – è parte della deriva trash. E’ il deliberato sensazionalismo di Sexual Personae.
Là dove non arriva l’antimafia, arriva l’esorcismo omofobo. Ancor più che mafioso, infatti, è l’omofobia a tracciare il solco della riprovazione sociale. Quanto più sei antimafioso tanto più è mafioso chi non la pensa come te anche sulla quantità d’acqua da dare alle papere, ma doppiamente garantito è chi – sul fronte sexual – se ne fa scudo.
Sotto traccia, nel sotto testo della patetica narrazione – sugellata da una fatwa omofoba inesistente – s’impone questa dottrina: i mafiosi, tutti machi, fanno la guerra a Crocetta più per il suo essere omosessuale che per il suo impegno di legalità.
La fissazione, giusto a ricordare il maestro Giuseppe Sottile, è “peggio della malattia”. In questo teatrino durato cinque anni – grazie alla complicità dei deputati regionali, fedeli allo stipendio, incapaci di dimettersi per porre fine all’impostura – il chiodo schiaccia chiodo s’è esercitato sugli attrezzi di scena. E accade perfino attraversando il casello dell’autostrada Siracusa-Gela, a Cassibile, dove a bordo di una delle cinque Audi blindate del presidente – un corteo, più che una scorta – Crocetta si prende un brutto spavento. La macchina è andata a sbattere per eccesso di velocità su un tratto ridotto a strettoia, e però presto il tutto è stato trasformato in un attentatone preparato dalle oscure trame retrogradi, incivili, mafiose e omofobe a uso e consumo della sceneggiata emozionale di aita, aita!
Nessuno mette in fila tutte le volte di tutte gli abbagli e gli allarmi. La vicenda ha un suo motivo erotico. E’ la famosa attrazione fatale del paracarro. Fu che il pilastro in cemento armato del casello si buttò addosso alla macchina dove viaggiava Crocetta, questo fu e già riderne – ancora oggi – rivela il volto bieco dell’omofobia.
Il sesso come cespite di una rendita politica quello di Crocetta che ribalta qualunque critica sulla sua sfacciata incapacità di governo in un sabba di consenso, costringendo tutti a una sorta di penitenziagite corale.
Chi avversa Crocetta è marchiato omofobo. E ne fa un tic del suo essere bizantino, non uno stile. Non è un’eleganza tutto il suo “desiderio di felicità”, piuttosto un’arma contundente. Da usare per neutralizzare qualunque dialettica politica.
Un suo assessore, Giovanni Pistorio, si lascia andare a delle battute da caserma sull’improvvisa smania del governatore di volere più traghetti per Filicudi. Le parole – maschie – vanno a finire nei brogliacci delle intercettazioni e Crocetta, su cui si apre l’indagine che vede inquisito l’armatore interessato alle rotte eoliane, riesce comunque a marchiare di conclamata omofobia l’assessore, moralmente condannato ancorché non indagato in quella vicenda. Carte cambiate in tavola come in una magia da magliari, e così è nella fantastica Sicilia del friendly pittoresco più che gay.
Si chiude quindi il capitolo di Sexual Personae in tema di Sicilia. E Barresi che non gli para il sacco a Crocetta – anzi, il contrario – da novello Camille Paglia lo fa uscire al naturale. Ed ecco le parole del presidente: “Se l’assessore Pistorio si fa dare il motoscafo per andare a prendere una donna, allora è macho, è femminaro. Se io vado a Filicudi per trascorrere una vacanza morigerata in mezzo alla natura, in un’isola dove l’ultimo presidente che c’è andato è Rino Nicolosi che gli portò la corrente elettrica, allora io sono una checca ossessionata dal sesso. Questa è omofobia, è sessismo. Lo stesso succede alle donne: se hanno successo non è perché magari sono davvero brave, ma perché sono zoccole e saltano da un letto all’altro.”
A parte il fatto che il suddetto Pistorio conosce Le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar come fosse l’Ave Maria – e perciò non può essere tacciato di ostilità verso gli arcobaleni – il maschio Giovanni, reietto, resta in un altro fatto: di essere il quarantaseiesimo assessore della giunta Crocetta costretto alle dimissioni.
Subito dopo lui c’è quello chiamato a chiudere la porta, il numero 47, morto che parla, per la Smorfia e se non fosse per l’omofobia sarebbe proprio da cambiare il nome al libro delle divinazioni oniriche: “la Mossa”. E più deliberato sensazionalismo sessuale di così, non si può. Altro che Marguerite Yourcenar, qui urge Ninì Tirabusciò.
Fonte : Live Sicilia