Sono trascorsi trentacinque anni da quando Tommaso Buscetta inaugurò la stagione del pentitismo dei grandi mafiosi. Una collaborazione che in quel lontano luglio del 1984 si rivelò fondamentale per conoscere dall’interno il fenomeno mafioso, la struttura di “Cosa Nostra”, i suoi legami, le sue regole.
Era l’epoca di Giovanni Falcone, del Maxiprocesso di Palermo, della lotta alla mafia condotta con le dichiarazioni di chi dal suo interno, per ragioni diverse, si decideva a saltare il fosso e collaborare con la giustizia.
Tolti i grandi pentiti della prima ora e quelli che successivamente decisero di collaborare davvero svelando i segreti della consorteria mafiosa, oggi, a distanza di così tanti anni, non ci resta che prendere atto di come il pentitismo abbia lasciato dietro di sé più macerie e ingiustizie che altro.
La corsa ai benefici garantiti ai collaboratori di giustizia, ha finito per creare un caos enorme nel quale è difficile districarsi e capire chi realmente sapeva e collaborava seriamente e chi millantava pur di ottenere una contropartita.
Pentiti che sanno tutto, che conoscono tutti, che negano tutto, che smentiscono persino le proprie propalazioni e che, comunque, per anni continuano ad essere ritenuti attendibili, nonostante le tante contraddizioni, i ripensamenti e le violazioni delle regole dello Stato, accettate al momento del presunto pentimento, con la conseguenza di lasciare impuniti gravi reati – a volte commessi dagli stessi collaboratori – o portare a marcire per anni nelle patrie galere persone innocenti.
E se il millantare fornendo false informazioni può essere un escamotage del criminale per godere di benefici non spettanti, lo stesso non può dirsi di quelle false informazioni rilasciate con il compiacimento, se non con la regia, di uomini appartenenti alle istituzioni.
Uno dei più grandi bluff, è stato quello di Vincenzo Scarantino, il “pentito” della strage di via D’Amelio che mise in atto un vero e proprio depistaggio che per decenni ha posto al riparo i veri responsabili dell’attentato nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, mandando in galera persone che con quella strage non c’entravano nulla.
Sono trascorsi cinque anni da quando intervistai l’avvocato Rosalba Di Gregorio, alla quale riconoscevo il merito di aver compreso fin dall’inizio dei processi che dietro le stragi c’era qualcosa di diverso da quello che prospettava il pentito Vincenzo Scarantino. Non mancarono le critiche da parte di quell’antimafia parolaia e di facciata che mi accusò di aver dato parola al difensore di fiducia di imputati di primo piano nei processi per fatti di mafia (Bontate, Greco, Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, Provenzano e altri).
Quella stessa antimafia che per così tanti anni aveva cullato lo pseudo pentito Scarantino, autentico Vangelo della strage, che creò inevitabili contraccolpi alle indagini.
Apprendiamo adesso che Scarantino alla vigilia del processo avrebbe voluto svelare il depistaggio, salvo poi confermare quelle accuse che, appare ormai chiaro, gli erano state suggerite da altri. Da chi? Perché?
Nel mirino degli inquirenti finiscono i poliziotti dell’allora “Gruppo Falcone Borsellino” (Mario Bò, Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo), oggi imputati nel processo a Caltanissetta, mentre la procura di Messina indaga Annamaria Palma e Carmelo Petralia, due ex magistrati di Caltanissetta.
A distanza di tanti anni si ritrovano improvvisamente nastri di intercettazioni e brogliacci che provano come Scarantino fosse in contatto con magistrati e investigatori, con i quali parla per avere chiarimenti su domande. Domande che gli sarebbero state poste? E in merito a quali aspetti?
Se si trattò di depistaggi, errori giudiziari, allegra gestione del pentitismo, non spetta a noi stabilirlo, lo diranno i giudici, quel che è certo e l’immane danno che ha prodotto e gli enormi guasti a una giustizia in balia del pentitismo.
Mi sono spesso chiesto perché un avvocato – in questo caso la Di Gregorio che avevo intervistato – si accorgeva fin dall’inizio della falsità di Scarantino, mentre magistrati, investigatori e antimafiosi di professione sembravano ciechi dinanzi l’evidenza.
Se Scarantino fu uno dei falsi pentiti, quello del depistaggio post-stragi, un altro ex pentito noto alle cronache del nostro giornale – e ormai nella sua caratteristica d’inattendibilità noto da un po’ anche all’opinione pubblica, che alla magistratura, quella attenta, era noto già da tempo – è Vincenzo Calcara.
Che anche dietro Calcara ci fossero suggeritori occulti che gli avevano suggerito persone da indicare, tanto da riconoscere in foto e in dibattimento soggetti dei quali non aveva detto di averli mai incontrati prima, o luoghi nei quali era stato, salvo indicare monumenti che da anni non si trovavano dove Calcara li avrebbe visti, ne avevano scritto i giudici nella sentenza pronunciata nel 1999 dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, per la cosiddetta “Operazione Aspromonte”. Una vicenda che vedeva coinvolti i calabresi in un traffico d’armi con la Sicilia (kalashnikov) che portò a una condanna in primo grado e successiva assoluzione, perchè il fatto non sussiste, in appello.
Ma era necessario arrivare al 1999 per rendersi conto, quantomeno, dell’inattendibilità del presunto pentito?
Inizi del 1992, sette anni prima della sentenza d’appello “Aspromonte”. Il “pentito” Vincenzo Calcara durante un interrogatorio in merito alla consegna e al trasporto dei kalashnikov provenienti dalla Calabria e consegnati dai Nirta agli uomini dei Messina Denaro a Ostia (tra i quali il Calcara) dichiara di conoscere i Nirta – in particolare Nirta Bruno – di San Luca, paesino calabro, ovvero coloro che avevano fornito le armi.
Calcara racconta di come nel settembre del 1991 con l’avvocato Antonio Messina pernottò in una casa a Ostia in attesa che i calabresi arrivassero con un furgone per consegnare le armi, spiegando che due mitra rimasero ai proprietari della casa, mentre gli altri quattro furono trasportati in Sicilia da Varvaro, Santangelo, Vincenzo Furnari e Saverio Furnari, precisando che Varvaro e Santangelo giunsero i taxi mentre i Furnari gli fu detto che sarebbero arrivati dopo con l’autovettura preparata per il trasporto delle armi. Lui e l’avvocato Messina andarono via prima che i Furnari arrivassero. Fa inoltre una descrizione del Nirta Bruno, indicatogli come tale dall’avvocato Messina. Tornato a Castelvetrano in treno, soltanto successivamente avrebbe saputo dal Varvaro e dal Santangelo il luogo dove erano state portate in via provvisoria le armi.
Fin qui la narrazione segue una sua logica, tale da renderla credibile. Una logica che già nelle pagine successive, manifestava tutte quelle discrasie che avrebbero dovuto indurre a considerare Calcara un falso pentito.
A pagina 71, il pubblico ministero chiede chi fosse a fornire le armi. Calcara risponde dichiarando che erano arrivati quattro Kalashnikov dalla famiglia Nirta. A chi sono arrivati? – chiede il pm. Calcara: Sono arrivati a noi, ne sono arrivati sei dichiara, facendo presente che c’erano l’avvocato Messina e Furnari, che i Kalaschnikov erano stati portati a Ostia, ma che lui non era presente. La prima evidente discrasia. Non aveva sostenuto che lui e l’avvocato Messina erano andati via prima dell’arrivo dei Furnari? In quella circostanza, su domanda del pm, risponde di aver saputo dall’avvocato Messina le modalità di questo trasporto di armi e dell’arrivo di queste armi e che fu lo stesso avvocato a presentargli Bruno Nirta in quella casa di Ostia. Eppure, come si legge nello stesso verbale, Calcara al momento dell’arrivo dei calabresi a Ostia, non era presente. Come poteva l’avvocato Messina, presentare Nirta a Calcara, considerato che quest’ultimo era già andato via
E se dubbi ci fossero in merito al fatto che si fosse verificato un errore di trascrizione, ecco che da pagina 168 del verbale d’interrogatorio arriva il chiarimento. Il pm torna a chiedere a Calcara se avesse conosciuto in quella circostanza, nella casa di Ostia, il Nirta Bruno. Calcara lo conferma! Gli venne presentato dall’avvocato Messina e dal Furnari. Ricorda pure che i kalashnikov erano stati trasportati dal Nirta accompagnato con un’altra persona e che erano arrivati con un furgoncino.
Tutto chiaro adesso? Calcara vide il Nirta, che gli fu presentato dal Furnari e dall’avvocato Messina, le armi e anche il furgone con il quale erano state trasportate. Peccato che già nella pagina successiva, la pagina 170, leggiamo che le armi furono trasportate in Sicilia dal Varvaro, dal Santangelo e da Furnari, che non erano presenti quando c’erano i calabresi, perchè arrivarono dopo, quando Calcara e l’avvocato Messina erano già andati via.
Quello che avete letto nelle immagini, non è un libro di barzellette, sono i verbali di un interrogatorio. Sono di quegli atti giudiziari grazie ai quali si fanno scattare le manette ai polsi degli accusati. La sentenza pronunciata nel 1999 dalla Corte di Appello di Reggio Calabria portò all’assoluzione degli imputati, gli stessi dei quali avete letto in queste pagine d’interrogatorio datate 1992. Era credibile Calcara? Per chi come me di professione non fa l’investigatore e non indossa una toga, Calcara era assolutamente inattendibile, ma grazie a questo genere di propalazioni, per tanti anni ancora, per troppi anni, avrebbe continuato a causare enormi guasti alla giustizia, accusando persone poi rivelatesi innocenti e permettendo ad altre di non pagare così il loro debito con la giustizia e con la società. Errori giudiziari, allegra gestione del pentitismo? Non spetta a noi stabilirlo, anche se, dando credito a pentiti di ben altro spessore e di ben altra attendibilità, quello che accadde fu funzionale a portare a termine un disegno politico e a favorire la latitanza di quel tal Matteo Messina Denaro ancor oggi uccel di bosco, che proprio durante quel periodo organizzò le stragi di Capaci e via D’Amelio.
L’unico “mafioso” a non conoscere Matteo Messina Denaro, del quale non fece mai il nome, era l’uomo d’onore “riservato” Vincenzo Calcara, al quale il padre dell’attuale latitante affidava gli incarichi più delicati… e meno credibili…
Gian J. Morici