Rocco Chinnici, la storia del giudice che sfidò gli intoccabili
La solitudine, il senso di impotenza di fronte alle minacce, la sensazione di essere continuamente assediato. E poi quello scoppio, enorme, il primo attentato contro un magistrato utilizzando il tritolo: cento chili, si disse, stipati dentro una Fiat 126 verde. Il 29 luglio del 1983, nell’estate calda e sciroccata di Palermo, in una di quelle stagioni scelte dalla mafia per seminare terrore e morte viene fatto saltare in aria Rocco Chinnici, il consigliere dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. I momenti che precedettero l’attentato, le telefonate mute e minacciose, le omissioni, l’atteggiamento ostile da parte di alcuni magistrati nei confronti del magistrato, le subdole richieste di mettere in condizioni di non nuocere Giovanni Falcone, magistrato fidato per Chinnici insieme a Paolo Borsellino, e poi il Chinnici magistrato ma anche il padre, il marito, l’amico: c’è tutto questo e non solo nel libro appena uscito per i tipi di Castelvecchi e scritto da due giornalisti siciliani (Fabio De Pasquale e Eleonora Iannelli con prefazione di Pietro Grasso) dal titolo “Così non si può vivere Rocco Chinnici: la storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili (280 pagine, 18,50 euro).
C’è il racconto dei figli («Papà fu lasciato solo, offerto ai suoi carnefici» dicono Giovanni, Caterina e Elvira) in questo libro che è utile perché ci consegna la ricostruzione di un pezzo mancante della strategia terroristico-mafiosa che comincia molto prima delle due stragi di Capaci e Via D’Amelio. È nel metodo di lavoro di Chinnici che va rintracciata la genesi del pool antimafia e dei nuovi metodi investigativi che mettono al centro il denaro e i patrimoni, gli assegni e gli affari e seguendo le tracce che lasciano questi strumenti si arriva a individuare l’impalcatura del potere mafioso, cui la politica non è estranea, ovviamente, e non sono estranei i potenti del tempo: i cugini Nino e Ignazio Salvo, i padroni andreottiani delle stramiliardarie esattorie siciliane, originari di Salemi come la moglie di Chinnici: nel paese del trapanese il magistrato trascorreva spesso il tempo libero e la mafia fece anche un sopralluogo per ucciderlo mentre si trovava lì.
C’è una estrema convergenza di interessi tra politica e imprenditoria mafiose e Cosa nostra nella strage di Via Pipitone Federico dove con lui muoiono due uomini della scorta (il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta) e Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo in cui abitava il magistrato. Chinnici dava fastidio per aver messo le mani nelle casseforti della mafia, nei conti correnti bancari ma soprattutto perché stava per chiudere il cerchio attorno ai mandanti degli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa e dunque stava per arrivare a comprendere quale altra convergenza di interessi vi fosse stata dietro quegli omicidi così eccellenti (il presidente della Regione siciliana, il segretario regionale del partito comunista e il prefetto ed ex generale dei carabinieri che era alto commissario per la lotta contro la mafia). Troppi misteri nell’omicidio del consigliere dell’Ufficio istruzione. Come quello che riguarda la pubblicazione dell’agenda del magistrato: «Circolava fotocopiata tra gli avvocati» racconta un cronista. Oppure il mistero sul fascicolo in cui è ricostruita la storia del processo: per 15 anni non se ne era saputo più nulla e ora è improvvisamente ricomparso a Palermo. Alcuni pentiti hanno anche raccontato che l’esito del terzo processo d’appello, celebrato a Messina nel 1988 dopo due annullamenti della Cassazione, sarebbe stato “aggiustato” per arrivare all’assoluzione di Michele e Salvatore Greco la mafia avrebbe corrotto un magistrato.
Sotto accusa era finito nel 1998 il presidente della corte d’assise d’appello che aveva emesso la sentenza, Giuseppe Recupero. Ma la magistratura di Reggio Calabria, dove l’inchiesta era stata trasferita, si era dichiarata incompetente. Il fascicolo era quindi tornato a Palermo. Il passaggio non era stato però annotato nei registri del palazzo di giustizia e il caso era stato quindi “dimenticato”. Nessuno in questi anni ha più indagato sulla presunta corruzione di Recupero. Il fascicolo è stato ritrovato e riaperto dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi ma intanto il giudice Recupero è morto da cinque anni. L’inchiesta cercherà comunque di accertare se la mafia abbia veramente versato a Recupero o ad altri, come sostengono alcuni collaboratori, 200 milioni di lire.
Fonte : Il sole 24 Ore
Il Circolaccio