Il pentito: «Il generale Niglio fu ucciso». E la Dda riapre il caso
Niglio, all’epoca comandante della Regione Sicilia, morì il 9 maggio 2004, due settimane dopo che la sua auto era uscita fuori strada lungo l’autostrada che collega Palermo con Catania. parlava di indagini su Provenzano e Messina Denaro, indagini che non avevo potuto portare a termine.
Il racconto di Riggio ha portato il procuratore aggiunto Gabriele Paci e il sostituto Pasquale Pacifico a ordinare alla squadra mobile di Caltanissetta, guidata da Marzia Giustolisi, di indagare su quell’incidente d’auto. Gli investigatori hanno cominciato ad acquisire i documenti di quella vicenda.
“Poco prima che morisse avevo dato al generale un mio appunto in cui si parlava di indagini su Provenzano e Messina Denaro, indagini che non avevo potuto portare a termine. Attraverso un mio confidente avevo pure individuato l’infermiere che curava Bernardo Provenzano”, ha raccontato di recente Nicolò Gebbia, generale dei carabinieri in pensione, ascoltato come teste dai magistrati dell’inchiesta sul processo Trattativa Stato-mafia.
Clamorose rivelazioni del pentito Pietro Riggio: «Stava approfondendo i rapporti fra esponenti dell’Arma e politici». Il ricordo dell’ufficiale che lasciò il segno a Reggio Calabria
Il generale Gennario Niglio fu ucciso». Sono parole prorompenti quelle pronunciate dal collaboratore di giustizia siciliano Pietro Riggio ai pm di Caltanissetta. Secondo il pentito, dunque, l’ufficiale dell’Arma morto a causa di un incidente stradale il 9 maggio del 2004 e molto amato in Calabria, in realtà non morì per un mero sinistro stradale lungo l’autostrada Catania-Palermo, ma per una strategia omicida ben pianificata.
Pietro Riggio, come riporta Repubblica, ha riferito ai pm di aver appreso da Giovanni Peluso, in passato agente di polizia in odore di servizi segreti deviati che «il generale dei carabinieri, Gennaro Niglio, morto in un incidente stradale, in realtà era stato ucciso. Era un uomo rigoroso, Niglio. Stava accertando i rapporti opachi tra alcuni appartenenti all’Arma e personaggi politici».
Sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, che sta fornendo elementi assai interessanti anche in merito ad altre vicende oscure degli anni ’90, i pubblici ministeri hanno dato incarico alla Squadra mobile nissena, diretta da Marzia Giustolisi, di tornare ad indagare sulle circostanze in cui avvenne l’incidente.
Le precedenti dichiarazioni
Già in precedenza, in medico napoletano, impegnato nella battaglia contro l’inquinamento in Campania, aveva espresso le proprie riserve in merito all’incidente occorso a Niglio: «Sono stato avvisato dal boss Carmine Schiavone di stare particolarmente attento ad incidenti stradali come già capitato ad un altro mio referente ed amico: Gennaro Niglio». Di recente, poi, Nicolò Gebbia, durante il processo per la trattativa Stato-mafia, disse che aver individuato l’infermiere che curava Provenzano e di aver lasciato un appunto a Niglio.
Chi era Gennaro Niglio
Nacque ad Ercolano nel 1949. Frequentò la famosa scuola militare di Napoli “Nunziatella” e l’Accademia Militare di Modena e si laureò in Giurisprudenza e Scienze della Sicurezza. Dopo aver acquisito la prima carica di tenente, fu destinato alla Scuola Sottoufficiali di Velletri ed alla Legione di Catanzaro. Successivamente fu a capo della sezione criminalità organizzata del Reparto Operativo di Roma e poi dei Comandi Provinciali di Napoli, Caserta e Reggio Calabria sotto la nuova carica di Tenente Colonnello e Colonnello.
Da rimarcare come, nel 1977, Niglio ingaggiò un conflitto a fuoco con Giuseppe Cosimo Ruga. L’ufficiale era all’epoca al comando della Compagnia di Roccella Jonica.
I fatti di Gioiosa
«Diventò punto di riferimento e simbolo della popolazione locale e delle proprie istituzioni, basti solo raccontare questo episodio, per dimostrare il coraggio e il ruolo che il Cap. Niglio aveva nei confronti dei cittadini calabresi. L’episodio – si legge nelle cronache dell’Arma – si verificò a Gioiosa, alla morte del boss locale, avvenuta in un conflitto a fuoco con i carabinieri, il clan impose il lutto cittadino in città, impedendo di tenere il mercatino domenicale, bloccando tutte le strade di accesso al paese sotto la minaccia delle armi, un amico del Capitano Niglio lo chiamò esponendogli la situazione che si era creata, egli arrivò a Gioiosa facendo riaprire i negozi dimostrando che in quella parte della Calabria c’era lo Stato che comandava e lui era lì per rappresentarlo».