Un calvario infinito quello di Antonio Vaccarino, condannato in primo grado a sei anni di carcere con l’accusa di violazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento, a causa di un’indagine e un’intercettazione per la quale – a parere dei suoi legali – mancavano gli indagati e anche l’indagine.
Vaccarino già prima del suo arresto, avvenuto nell’aprile dello scorso anno, soffriva di patologie cardiovascolari per le quali i periti nominati dal Tribunale di Marsala dichiaravano che le sue condizioni di salute erano comunque compatibili con il regime carcerario.
Il 3 luglio era stato trasportato urgentemente al pronto soccorso su richiesta da parte del servizio sanitario del penitenziario che riteneva il detenuto in pericolo di vita. Ricoverato d’urgenza nel reparto di cardiologia, veniva sottoposto a coronarografia e ad intervento di angioplastica con impianto di stent medicato.
Dimesso l’11 luglio, condotto nuovamente in carcere, a causa della fibrillazione atriale permanente e le gravi crisi ipertensive, ne veniva disposto nuovamente l’invio presso l’ospedale dal quale era stato appena dimesso. Vaccarino, a causa dello stress psico-fisico, rifiutava un secondo ricovero, forse anche perché scoraggiato dal fatto di essere tradotto in un ospedale che lo aveva dimesso nonostante le due condizioni cliniche avessero allarmato il dirigente sanitario della struttura penitenziaria
Sottoposto a ulteriori accertamenti si evidenziava aritmia totale da fibrillazione atriale e diverse pause che portavano il medico a consigliare di eseguire l’esame di miocardioscintigrafia, rilevando la necessità di ulteriore controllo coronarografico a seguito dell’eventuale esito positivo della scintigrafia. Gli stessi periti nominati dal tribunale, pur ritenendo compatibili con il regime di detenzione in carcere le condizioni di salute di Vaccarino, l’8 settembre ravvisavano la necessità che lo stesso andava ricoverato presso ambiente cardiologico dotato di reparto di emodinamica per essere sottoposto a impianto di pacemaker definitivo, anche come suggerito dai sanitari della casa circondariale.
Il 10 settembre il tribunale autorizzava il trasferimento del Vaccarino presso l’ospedale, nella data la più prossima possibile, che sarebbe stata sollecitamente concordata tra il presidio e l’amministrazione penitenziaria per il tempo necessario per l’effettuazione dell’intervento di installazione del pacemaker definitivo.
A seguito di ulteriore richiesta di sostituzione della misura cautelare avanzata dagli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo, difensori di Vaccarino, il tribunale conferiva incarico nuovamente ai periti in precedenza nominati. Nella relazione del 30 settembre i periti, questa volta, scrivono che “al fine di preservare la salute del periziando che quest’ultimo venga sottoposto a impianto di pacemaker entro breve termine, indicazione già precedentemente indicata dagli scriventi. Nell’ottica di salvaguardia della salute del paziente si concorda (come già precedentemente indicato) il trasferimento presso ambiente cardiologico in struttura pubblica idonea al fine di poter eseguire quanto opportuno ritenuto dai sanitari specialisti nella branca” – proseguendo inoltre, in materia di rischio vita, come da richiesta della difesa – “Attualmente per quanto concerne la valutazione del pericolo di vita sulle condizioni di salute del periziando peso specifico rilevante assume la problematica relativa alla alterazione della conduzione cardiaca, che potrebbe esporre in concreto una sua operazione a improvviso blocco atrioventricolare.”
Un pericolo di vita che ormai non viene messo in dubbio più da nessuno, né dai medici della struttura penitenziaria che lo avevano evidenziato già il 3 luglio, né dai periti di parte e neppure dai Consulenti Tecnici d’Ufficio nominati di fiducia dal giudice.
I difensori di Vaccarino, considerati i notevoli ritardi della pubblica amministrazione nel rispondere in tempi brevi alle esigenze di cura del loro assistito, e dell’aggravarsi delle patologie, avevano chiesto la sostituzione della misura cautelare affinchè lo stesso potesse rivolgersi a medici e strutture ospedaliere, senza dover aspettare quei tempi biblici ai quali ci ha abituati la nostra burocrazia.
Tutto ciò, senza considerare i gravi stati di fibrillazione atriale e la costante ipertensione prolungata da mesi (che comporta un danno a carico dei vasi sanguigni, dal quale derivare gravi complicanze, come la formazione di aneurismi, infarti e ictus, insufficienze cardiache e nefropatie) che avrebbero dovuto imporre di intervenire prima che si verifichino danni irreversibili.
Il 6 ottobre, a distanza dunque di quasi un mese da quando era stato autorizzato il trasferimento di Vaccarino presso l’ospedale, il giudice Vito Marcello Saladino, del tribunale di Marsala, ha emesso una nuova ordinanza nella quale non viene neppure citata l’ultima relazione dei CTU che non escludevano il rischio di un improvviso blocco atrioventricolare e, nel rigettare l’istanza presentata dagli avvocati difensori, ha autorizzato nuovamente il trasferimento del Vaccarino presso l’ospedale nella data – la più prossima possibile – che verrà sollecitamente concordata tra il predetto presidio e l’amministrazione penitenziaria, per il tempo necessario per l’effettuazione dell’intervento di installazione di un pacemaker definitivo, oltre che di nuova valutazione coronarografica, e di ogni altro eventuale accertamento diagnostico preliminare ritenuto necessario alla predetta operazione di installazione.
Purtroppo, i precedenti ce lo insegnano, non sempre i tempi della giustizia corrispondono a quelli del mondo. Come nel caso di A.V., al quale venne diagnosticato un tumore e per il quale nonostante i parenti avessero chiesto il trasferimento in una struttura ospedaliera idonea, il magistrato rigettò l’istanza e dispose il rientro nel carcere, poiché poteva essere curato in un altro istituto. Morì senza fare neppure un giorno di radioterapia.
Per A.M., invece, dopo che venne rigettata l’istanza per sostituire la custodia cautelare in carcere, dopo mesi i suoi difensori legali si videro accolta la richiesta di trasferimento presso un centro attrezzato per la sua patologia, salvo poi scoprire, dopo la comunicazione del giudice, che il loro assistito era rimasto in carcere e non era stato trasferito in nessun centro diagnostico. Un falso clamoroso, quello della comunicazione, al quale si aggiunse la beffa. A.M., venne condotto in un carcere che fin da subito si dichiarò incompetente per la sua patologia e a distanza di quattro mesi dall’autorizzazione a potersi curare, nonostante le sue condizioni si fossero aggravate, non aveva ancora potuto seguire la terapia che gli era stata prescritta.
Se è pur vero che la Costituzione italiana riconosce e tutela il diritto alla salute quale diritto soggettivo di ogni persona presente sul territorio italiano, sia essa cittadina o meno, benestante o indigente, libera o detenuta, altrettanto vero è che di fatto tale valore costituzionale supremo viene meno quando la burocrazia non tiene conto dei tempi dettati dalla natura, dalle malattie e – per chi ci crede – dal buon Dio. Se è inumano impedire, o ritardare, le cure a chicchessia, anche se condannato per gravissimi reati con sentenza definitiva, come non riflettere quando ci si trova dinanzi soggetti in attesa di due gradi di giudizio – quindi per la nostra legge ancora presunti innocenti – che potrebbero ribaltare il primo grado di giudizio.