Raul Gardini, l’imprenditore sucida e le carte segrete
Le lettere ad Andreotti e a Gabriele Cagliari. La lite con Craxi. L’agenda riservata. E la prima richiesta d’arresto che avrebbe potuto evitare il suicidio. Dopo oltre 25 anni, spuntano i documenti inediti dell’ex re della chimica che si uccise nel luglio 1993, fra Tangentopoli, stragi di mafia e misteri italiani. Gardini faceva affari con tutti anche con le coop. rosse
Raul Gardini e Gabriele Cagliari. I loro nomi sono rimasti accostati, nel libro nero di Tangentopoli, dalla tragica fine. Due uomini di vertice dell’industria italiana, privata e pubblica, si tolgono la vita uno dopo l’altro, nel luglio 1993. Entrambi schiacciati dal peso di accuse che stanno facendo crollare l’intero sistema politico ed economico.
La cosiddetta Prima Repubblica muore in quella torrida estate di 25 anni fa, tra crisi del debito pubblico, inchieste su enormi casi di corruzione, stragi di mafia con troppi misteri. E quelle morti eccellenti, traumatiche, proprio al culmine delle indagini milanesi sull’Eni e sul gruppo Ferruzzi-Montedison. Due suicidi in tre giorni (Cagliari il 20 luglio, Gardini il 23) che scuotono l’Italia. E listano a lutto uno snodo cruciale della nostra storia, che oggi si può ripercorrere, per capirne di più, grazie a nuovi documenti scoperti da L’Espresso. Come una prima richiesta d’arresto di Gardini, rimasta ineseguita, che avrebbe potuto salvarlo. O una lettera personale di Gardini proprio a Cagliari, che documenta la stima e il rispetto che univa i due capi-azienda anche nei mesi dello scontro sull’affare Enimont: l’alleanza tra Eni e Montedison poi naufragata in un mare di tangenti.
«Caro Cagliari», gli scrive Gardini, di suo pugno, l’otto febbraio 1990, in questa missiva finora inedita , «voglio avere con lei il rapporto che ho con le persone che stimo… Io ragiono sempre di quello che si può fare al meglio e per durare nel tempo. Voglio bene alla gente e se non è impossibile do una mano anche quando posso fare molto male. Mi piace credere che gli uomini sono fatti così: tutti. Ogni tanto ne incontro uno e mi volto per andare con lui volentieri. Cordialità».
Mani Pulite è il nome dell’indagine che in meno di tre anni, dal febbraio 1992 al dicembre 1994, ha scoperchiato decenni di corruzione in Italia. Il bilancio finale è un pezzo di storia: oltre 1.200 condanne definitive per tangenti e reati collegati. Nata a Milano da una bustarella in un ospizio, già nei primi mesi l’inchiesta si allarga, da un arresto all’altro, da una confessione all’altra, fino a coinvolgere centinaia di imprenditori, politici e burocrati. Dagli appalti locali, i magistrati risalgono agli affari nazionali, ai parlamentari, ministri e leader dei partiti di governo. La lotta alla corruzione ha un fortissimo sostegno popolare, gli imprenditori fanno la coda per confessare.
Nel 1993 Mani Pulite arriva ai vertici dell’economia: anche i grandi gruppi industriali pagano tangenti, con fondi neri nascosti all’estero. I flussi più imponenti escono dalle casse dell’Eni, l’azienda statale del gas e petrolio, e del gruppo Ferruzzi-Montedison, il colosso privato dell’agroalimentare e della chimica.
Il 20 luglio 1993 Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, si uccide nel carcere di San Vittore, dove era detenuto dall’8 marzo. Tre giorni dopo si spara Raul Gardini, nel suo palazzo di Milano.
Per quel 23 luglio il suo primo impegno, annotato in un’agenda finora rimasta riservata, erano proprio i funerali di Cagliari. Lo stesso giorno era segnato un altro appuntamento: un interrogatorio con Antonio Di Pietro, allora pm simbolo di Mani Pulite. Luogo fissato: una caserma. Anche se Gardini si aspettava un ordine di carcerazione.
Lo shock dei due suicidi incrina, per la prima volta, il consenso di massa per Mani Pulite. Dalle tv di Berlusconi, che è ancora solo imprenditore, partono i primi violentissimi attacchi ai magistrati. Il 27 luglio a Milano irrompe la mafia stragista: un’autobomba uccide cinque persone in via Palestro, mentre altri attentati devastano due chiese di Roma. Cosa Nostra fa terrorismo politico. Strategia della tensione. Il premier Ciampi, capo di un governo tecnico, colpito da un misterioso blackout a Palazzo Chigi, arriva a temere un golpe. Al procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio sembra di rivivere i giorni neri di Piazza Fontana.
Su quei fatti carichi di storia, dolore e tensione, oggi i documenti offrono qualche certezza. E svelano più di un segreto. Se il suicidio di Cagliari è una disperata protesta contro la disumanità del carcere, come scrive il figlio Stefano nel recente libro “Storia di mio padre”, la morte di Gardini ha un’altra trama. Il suo difensore, Marco De Luca, che fu l’ultimo a incontrarlo, non ha dubbi sul suicidio, ma non se lo spiega: «Quella sera, con Giovanni Maria Flick, siamo rimasti con Gardini fino alle 23. Lui sapeva che stava per essere arrestato, era uscita la notizia delle confessioni del presidente del gruppo, Giuseppe Garofano. Prima di vederci Gardini era preoccupato, temeva che si scaricasse ogni colpa su di lui. Gli abbiamo spiegato che da una persona come Garofano non doveva temere falsità: aveva solo confermato le accuse che Gardini si aspettava. E cioè il sistema dei fondi neri gestito da Berlini. Anche sul carcere, l’abbiamo rassicurato. Gli abbiamo detto che avevamo parlato con Di Pietro, quando non poteva più smentire di aver chiesto l’arresto. E che il pm si era impegnato a interrogarlo in una caserma, con lealtà, evitandogli il carcere». Di qui l’appunto nell’agenda.
Ma allora perché si è ucciso? «Me lo sono chiesto per anni», risponde De Luca. «Quella sera era molto logorato. Però sapeva che non sarebbe neppure entrato in carcere. Oggi penso che abbia voluto proteggere la sua storia di imprenditore. E la sua famiglia. Non poteva accettare di tornare a Ravenna con il marchio di corruttore. Si è tolto di mezzo perché la sua famiglia fosse lasciata in pace».
Al tribunale di Milano L’Espresso ha trovato quegli atti fatali. I pm chiedono l’arresto la sera del 21 luglio. Il giudice Italo Ghitti firma l’ordinanza due giorni dopo, alle 9.15. Gardini si è già ucciso da un’ora. Tra le carte, però, spuntano anche documenti inediti: c’è una prima richiesta di arrestare Gardini, firmata dai pm Di Pietro, Davigo e Greco, che risale al 5 luglio. Cinque giorni dopo, il giudice respinge l’arresto, per cui tutto resta segreto. Quella prima richiesta riguarda già il «sistema Berlini»: fondi esteri «fino a un miliardo di dollari». I primi a parlarne, però, erano due dirigenti che non gestivano quei soldi. Quindi il giudice Ghitti nega l’arresto per insufficienza di indizi. Ora è più chiaro perché Di Pietro, su Gardini, ripete da sempre che «se avessimo potuto arrestarlo, si sarebbe salvato».
Dal 10 luglio, dopo il primo no del giudice, i pm raccolgono molte più prove. Come le confessioni di Garofano e altri dieci indagati, tra cui Lorenzo Panzavolta, il boss della Calcestruzzi. La nuova richiesta viene accolta, ma per Gardini è tardi.
Il caso dell’arresto negato lascia sbalordito l’avvocato De Luca: «Non ne sapevo niente». A chiudere il quadro ora emerge anche un memoriale sequestrato nel palazzo di Milano dopo il suicidio: dieci pagine scritte al computer (o dettate) in prima persona da Gardini. La sua ammissione che le società offshore gestite da «B», cioè Berlini, erano arrivate a gestire fondi neri «per circa mille miliardi di lire». Il memoriale è diviso in capitoli che corrispondono ai capi d’accusa dell’ordine d’arresto del 23 luglio: Gardini, insomma, era pronto a confessare. «Non ho mai visto quel memoriale, ma gli avevo chiesto di prepararlo», conferma De Luca.
Il 23 luglio finiscono agli arresti gli altri accusati. Berlini è il primo ad ammettere di aver gestito «fino a un miliardo di dollari» in Svizzera. E di aver mandato denaro in Italia anche per pagare politici «già dalle elezioni del 1987». In carcere, poi, è il manager Carlo Sama a vuotare il sacco su Enimont: nel 1992, dopo la rottura con Gardini, il gruppo ha versato «circa 150 miliardi di lire», attraverso Sergio Cusani, ai partiti di governo e a decine di parlamentari. La sentenza definitiva condanna Sama e gli altri imputati anche per la prima ondata di tangenti del ‘90-’91. In cambio, fu l’Eni a versare al gruppo Ferruzzi, per il 40 per cento di Enimont, 2.805 miliardi di lire: una cifra che lo stesso Gardini, sentito come testimone a Roma il 17 febbraio 1993, definì «sicuramente eccessiva, maggiore del valore reale di circa 600 miliardi».
Al cambio di oggi, insomma, le tangenti (circa 75 milioni di euro) hanno garantito ai privati almeno 300 milioni in più di soldi pubblici. Il quadruplo.
Archiviata Tangentopoli, Gardini viene dimenticato dall’Italia che conta. Solo nella sua amata Ravenna amici e conoscenti ricordano ancora il corsaro dell’economia, il vero erede del fondatore dell’impero Serafino Ferruzzi. Ai tempi d’oro, però, i potenti facevano la fila per vedere Gardini. Nelle agende trovate dall’Espresso sono annotati tutti i suoi incontri dal 1987 al 1991. Decine di imprenditori, politici, banchieri.
Tra centinaia di appuntamenti, spiccano i nomi di Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, il banchiere d’affari Rothschild. Tra i finanzieri, i più assidui sono Gianni Varasi e Jean Marc Vernes, che lo aiutarono a scalare Enimont. Tra i politici, i socialisti Claudio Martelli e Gianni De Michelis, ma anche Craxi, con cui litiga su Enimont: Bettino telefona, Gardini si nega. E pochi mesi dopo scrive una lettera riservata all’allora premier Giulio Andreotti, con una sfacciata allusione ai vizi della sua Dc. «Caro presidente Andreotti, mi ha confortato sentir dire che dobbiamo aspirare a una chimica aperta alla competizione mondiale. Si può ancora fare… È indispensabile in questa società che sia forte il senso dell’orgoglio e della virtù, dimenticando il vergognoso passato… Tutti, meno i ladri, lo aspettano con ansia».
Gardini frequenta anche le persone che governeranno l’Italia dopo Tangentopoli. Con Berlusconi parla solo di affari, come la Standa. Con Romano Prodi, ex presidente dell’Iri, si contano centinaia di telefonate e incontri.
«Parlavamo dell’Italia e di come stava cambiando il mondo», racconta oggi Prodi, «e mi raccontava dei suoi progetti. Era un romagnolo vero, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta. Gardini era un outsider negli Stati Uniti per l’alimentare e in Italia per la chimica. Picchi e cadute si devono al suo carattere: non teneva conto degli equilibri, dell’establishment. Sui carburanti alternativi, non è che la storia gli abbia dato torto. Ma allora non andava bene e lasciò un gruppo smembrato. Quando si suicidò provai un grande dolore: per me era un amico». Ai funerali fu Prodi ad accompagnare la vedova, Idina Ferruzzi, nella chiesa di San Francesco a Ravenna.
DI PAOLO BIONDANI E ALESSANDRO CICOGNANI
Articolo pubblicato nel 2018 sul settimanale L’Espresso
Qui mi trovo a dire che Raul Gardini è stato un uomo tutto d’un pezzo e un cavallo di razza dell’economia italiana, quattro spanne sopra al tipo sociologico e culturale dei Berlusconi ai quali è stata invece lasciata mano libera dopo. Ha commesso “l’errore” di fronteggiare il sistema politico italiano, corrotto, credendosene più forte, mentre c’era sceso a patti, ma costretto. In sostanza l’hanno fregato, e chi l’ha fregato nessun interesse aveva per l’Italia, l’economia e la decenza. Visionario e in anticipo sui suoi tempi. L’unico suo difetto forse allora un eccesso di ambizione, o quella ingenuità, una ingenuità che è solo dei giusti, non dei mediocri e non degli intrallazzatori. Sono i migliori che cadono, pagando per gli incorreggibili e i peggiori.