articolo del dicembre 2012
Giusto Sciacchitano sarà procuratore aggiunto alla Direzione Nazionale Antimafia? A Michele Costa, figlio di Gaetano Costa, giudice ucciso dalla mafia, non va giù: Sciacchitano, da sottoposto, aveva contrastato i suoi procedimenti contro la mafia. Una storia oscura, che corre sui confini non chiari…
All’inizio di novembre Giusto Sciacchitano è stato nominato Procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia. A scegliere il suo nome è stato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. La notizia non ha trovato il giusto spazio sui giornali, ed è scivolata tra le brevi in pagina interna. Però ha fatto sbottare l’avvocato Michele Costa, figlio di Gaetano Costa, magistrato ucciso dalla mafia dopo aver firmato una sfilza di ordini di cattura in contrasto con i suoi sostituti, fra quali vi era proprio il giovane Giusto Sciacchitano. Linkiesta ha intervistato Michele Costa per farsi raccontare che persona fosse (ed è) il neo procuratore aggiunto della Dna, e anche per comprendere meglio il fenomeno Cosa Nostra.
Avvocato Costa, lei è sobbalzato dalla sedia quando è stato nominato Giusto Sciacchitano procuratore aggiunto delle Dna. È comprensibile. C’è una lunga storia, che riguarda suo padre e Sciacchitano. Quando si incontrarono?
Prima di tutto, è meglio fare una premessa. Mio padre fu nominato Procuratore Capo di Palermo nel gennaio del 1978. Però, fino a luglio 78, nonostante l’incarico gli fosse stato già conferito, di fatto le funzioni di procuratore capo sono state continuamente esercitate dal precedente, perché Giovanni Pizzillo (ex procuratore capo di Palermo di allora) si rifiuta di chiedere l’anticipato possesso. Lei, avrà pratica, l’anticipato processo non è stato rifiutato nemmeno alla Procura di Roccacannuccia!
E allora cosa succede?
Si insedia nell’agosto del 1978. Inizialmente si guarda intorno. Ma fino alla fine di Natale viene tenuto sotto controllo. Sopra di lui, l’aggiunto Martorana guarda tutto, e filtra tutto quello che gli deve arrivare. Mio padre che fa? Inizialmente cerca di evitare il filtro di Martorana, ma alla fine, consapevole che la Procura della Repubblica non può essere bicefala ma deve essere monocefala, decide di scontrarsi, anche in modo duro, con Martorana. Gli spiega che è lui il Procuratore della Repubblica, non altri. Da quel momento gli attacchi diventano diversi. Lei consideri che lui incontrò solo una volta il poliziotto Boris Giuliano, all’epoca uno degli investigatori più efficienti e innovativi nella lotta alla mafia. Una delle tecniche di mio padre erano le cosiddette “perquisizioni domiciliari”. Ovvero si alzava dalla sedia, si faceva un giro nelle stanze dei suoi sostituti e sbirciava. Un’altra tecnica era quella di garantire una diffusione dell’informazione all’interno del pool. Tenga presente questi due aspetti. Allo stesso tempo, nonostante questa diffusione di informazioni, non si parlava di dare del “tu”. Questa è la premessa per comprendere il clima.
Andiamo al caso in questione.
Bene. Era successo che, da Milano, il giudice Giuliano Turone, che indagava sulla morte di Ambrosoli, aveva chiesto informazioni su un certo Antonio Inzerillo, che aveva portato una lettera da Michele Sindona all’avvocato Guisi. La richiesta di informazioni era stata presentata a Bruno Contrada. Lui aveva indagato e sintetizzato così: «Passando dalle famiglie Spatola ed Inzerillo si arriva a tutto il male del mondo». Si era alla prima vera spallata contro la mafia, contro il gruppo Spatola-Inzerillo, e bisognava convalidare più di 50 arresti. I due sostituti, Luigi Croce e Giusto Sciacchitano, erano perplessi. Gli altri sostituti, ad eccezione di Vincenzo Geraci, fecero quadrato intorno a loro. Tant’è che il giorno prima della convalida degli arresti ci fu una riunione per spalleggiarli in caso di scontro. Mio padre firmò da solo. Ma quella riunione non rimase nelle segrete stanze perché Sciacchitano, parlando con Filecci, avvocato di Spatola, e con un giornalista presente, disse: «Eravamo tutti contrari, tutti tranne lui». L’indomani i giornali uscirono con i titoloni che recitavano: «Scontro in pretura». Quando io chiesi a mio padre cosa fosse successo, lui mi rispose: «Hanno voluto fare una verifica. C’era qualcuno che era garantista sul serio, qualcuno aveva paura, qualcuno era colluso». Quello fu il primo processo vero contro la Mafia, e si scopre tutto: si scopre che c’era Michele Sindona, che c’era Guido Calvi, che c’era la P2. Per la prima volta si era indagato seguendo le linee patrimoniali.
Ma sull’episodio non è intervenuto il Csm?
Il Csm non nega che non sia un comportamento anomalo, quello di Sciacchitano, e ritenne quel comportamento “censurabile” ma non comminò nessuna sanzione. Per anni ci siamo chiesti come mai non fosse stato toccato, nemmeno con un richiamo formale. Durante il processo qualcuno tirò fuori il rapporto di Sciacchitano con Angelo Siino (definito “il ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina), ma non siamo mai riusciti a trovare elementi su questa storia. Recentemente Massimo Ciancimino raccontò dei rapporti di Sciacchitano con la Siciliana Gas, cioè con Siino. Quando poi una persona insospettabile, interrogato come teste, disse “Sì, l’ho incontrato in casa di Siino, insieme a tutta una serie di personaggi”, noi abbiamo fatto un esposto alla Procura di Catania, dove ritenevamo fosse incardinato il processo. La Procura di Catania non reagì, e io scrissi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il quale subito chiese informazioni, e immediatamente il procuratore della Repubblica di Catania si accorse del processo e lo mandò a Caltanissetta. E da lì non si ebbe più nessuna notizia. In questi anni ho subito l’oltraggio di vedere Luigi Croce Procuratore generale a Palermo. L’oltraggio di uno che il Csm definì “inadeguato”. Ma sapere al vertice dell’Antimafia Giusto Sciacchitano mi è dispiaciuto. E il mio avvocato ha scritto una lettera a Napolitano per spiegargli le cose.
Ma lei scrisse anche a Scalfaro?
La prima volta fu nel 1992. Quando il Csm deliberò che Sciacchitano fosse «bravissimo», ma che non fosse il caso di mandarlo lì, alla “Super Procura” cioè la direzione antimafia. A quel tempo il procuratore nazionale antimafia è Vigna e io chiedo di incontrarlo. Vigna mi giura che non darà mai parere positivo per Giusto Sciacchitano, per tutto quello che rappresenta. E guardi un po’, dopo quindici giorni fa la famosa dichiarazione in cui dice che l’unico che può andare a ricoprire quel posto è Giusto Sciacchitano. Dichiarazione che tra l’altro non si comprende.
E stavolta? Il Csm ratificherà la nomina?
Per quelle che sono le notizie che ho, non dovrebbe ratificarla. E comunque non la ratificherà in modo indolore. Alcune persone spontaneamente mi hanno dimostrato la loro solidarietà. Alcuni si sono sentiti offesi. Però…
Però cosa?
Sciacchitano è una potenza clericale. L’ho scoperto adesso. Infatti ho intenzione di scrivere al Cardinale Romeo. Recentemente è stato a Palermo a fare una lezione sulla legalità per una scuola
di “parrina” (preti).
Perché la stampa ha ignorato, o comunque non sottolineato la notizia della nomina di Sciacchitano?
Lei tenga presente, ad esempio, che l’edizione palermitana di Repubblica non scrive un rigo per commemorare la morte di mio padre. La prima volta ritenevo che fosse un buco giornalistico. Tenga presente che mio padre nasce partigiano, fece parte del partito comunista clandestino. Era un uomo di sinistra. Subito dopo che morì cercarono di tirare fuori qualsiasi cosa contro di lui. Abbiamo subito i tentativi di depistaggio addirittura da Giovanni Falcone. Il quale, nel primo maxi processo, nel 1986, scrive: «È veramente triste che un galantuomo venga ucciso solo perché c’è un delinquente che vuole fare una bravata». Fa dire a Tommaso Buscetta che Costa è stato ucciso da Cosa Nostra solo per dimostrare di essere potenti. E la stessa cosa la ripete con Marino Mannoia: «Sì, è stato ucciso per la sua testardaggine». In realtà, come c’è scritto nella sentenza (anche se con molta prudenza) mio padre fu ucciso per una serie di motivi. Cui la convalida del fermo di 40 mafiosi non era quello più importante. Il problema era la concreta interferenza negli affari e nella gestione dei contratti della mafia. E qui c’è il “dubbio palermitano”.
Cos’è il “dubbio palermitano”?
Lei si rende conto che a ogni commemorazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, esce una nuova pista investigativa? Ancora oggi c’è chi non vuole prendere atto che l’epopea dei maxi processi fu un fallimento. E che fu un fallimento lo disse anche Giovanni Falcone. Nel 1991, in un’intervista rilasciata a Maurizio Costanzo, Falcone dice: «Il rimpianto è di essere stato ad un passo di una svolta epocale e di non esserci riusciti». Le giustificazioni non sono rivelanti. Il problema vero è che sia lui stesso ad ammetterlo.
E oggi cosa sta succedendo in Sicilia?
La cosa più terribile è la mafia dell’antimafia. Quando io scopro che c’è uno strumento che crea consenso, non è importante tutto il resto. Anche le vittime della mafia hanno seguito in gran parte questa stessa strada. Noi ci siamo costituiti in parte civile per stabilire di trovare un colpevole. Io vorrei sapere tante altre parti civili cosa hanno fatto. Continuano a processare per 15 anni, 20 anni, ma una condanna seria non c’è…
Un’ultima domanda: in un’intervista rilasciata a Linkiesta, Pietrangelo Buttafuoco distingue fra due tipi di antimafia, quella di “chiddi ingenui”, e quella di “chiddi sperti”. Ci spieghi l’affermazione di Buttafuoco.
L’antimafia di quelli ingenui, che è perdente, è di quelli che hanno la convinzione di cercare le prove, di cercare la verità. “Chiddi sperti” parlano di legalità, ostentano legalità, e poi quando qualcosa colpisce l’opinione pubblica e loro che fanno? Semplicemente cavalcano l’onda. Ma c’è un solo modo per garantire la legalità, imporre la trasparenza. Punto.
(Michele Costa, classe ’45, nisseno, avvocato, figlio del giudice Gaetano Costa, ucciso dalla mafia nell’agosto del 1980. È stato anche assessore al comune di Palermo, durante la sindacatura di Diego Cammarata. A fine intervista confida a Linkiesta: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano nemici da sempre, nemici sul serio. Stranamente, essendo nati nella stessa piazza da nemici non si incontrarono mai. Addirittura Paolo Borsellino, nella prima fase della carriera da magistrato, non intuì la lotta strategica della lotta alla mafia. Il magistrato antimafia era solo Giovanni Falcone)
Fonti: linkiesta di GiuseppeFalci – Dicembre 2012
Il Circolaccio
Maurizio Franchina
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