Efebo di Selinunte«No, ma la mafia proprio no. Che possano esserci anche dei semplici sospetti di mie collusioni, o di qualsiasi mio coinvolgimento con un supposto piano, attribuito a Matteo Messina Denaro, per rubare il Satiro danzante di Mazara del Vallo, è cosa che mi ferisce profondamente; e che, oltre a tutto, è totalmente priva di senso. Ma il suo articolo sul Messaggero del 17 giugno non specifica, per esempio, che tutti i 12 “pentiti” interrogati hanno unanimemente escluso di avermi anche soltanto conosciuto».

Gianfranco Becchina è proprio arrabbiato. Siamo nella sua tenuta, 25 ettari con tremila ulivi che producono l’Olio Verde (Clinton l’aveva voluto in tavola alla Casa Bianca); i templi di Selinunte sono a un passo.

Becchina, 70 anni, non è uno qualunque: è stato un grande mercante di reperti archeologici a Basilea; è procuratore di Olio Verde, società azionista di Atlas Cementi («fatturato di 15 milioni, ma erano anche 25 all’anno»); a Roma, è processato, come tanti altri, per il saccheggio che il nostro sottosuolo ha subito almeno dal 1970 in poi, oltre un milione di reperti scavati clandestinamente dai “predatori dell’arte perduta”: nel 1984, ha ceduto al Getty un monumentale kouros, ora assai discusso, forse per 16 miliardi di lire; e per l’accusa, ha anche venduto il Cratere di Asteas, ormai restituito al nostro Paese dal museo californiano. «Ma, di questo, io non voglio ancora parlare.

E’ in corso l’udienza preliminare davanti al giudice Guglielmo Muntoni: reputo irriguardose verso i tribunali, e perfino incivili, le indagini giornalistiche, compiute sui documenti della pubblica accusa, mentre un processo si sta svolgendo. Desidero parlare soltanto di ipotetici miei coinvolgimenti in azioni mafiose. Perché, se, negli atti che mi riguardano, qualcuno racconta di qualche suo progetto per rubare il Satiro, nessun documento permette di supporre minimamente che io c’entrassi qualcosa».

Infatti, nulla di questo è mai stato scritto.
«Ma non è stato nemmeno escluso; resta l’ombra, e forse di più, dell’insinuazione. I magistrati e i carabinieri hanno interrogato una dozzina di pentiti, per sapere se qualcuno aveva qualcosa a che fare con me: nessuno ha ammesso anche solo d’avermi incontrato; un’indagine sprecata, soldi dello Stato gettati al vento».

Del resto, lei era già stato proposto per una misura di prevenzione nel 1989, allora la difendeva l’avvocato Bruno Leuzzi di Roma, ed era stato scagionato, vero?
«Il caso è stato archiviato per mancanza di riscontri; ma sono stati necessari anni ed anni di attesa».
Prima, indagò Paolo Borsellino; dopo la sua uccisione, il procuratore Gian Carlo Caselli, no? E appena lui lasciò Palermo, io venni prosciolto. Se si indagasse sull’autore del rapporto contro di me al giudice Borsellino, forse si scoprirebbero cose interessanti».

Che cosa significa, scusi?
«Che non c’era nulla a mio carico, ma qualcuno, forse bisognoso di un paravento, presentò una specie di denuncia: perché?».

Giovanni Miceli, il suo attuale (però “storico”) avvocato, aggiunge: «Per 7 o 8 anni, un avviso di garanzia, per reati come la bancarotta tipici degli amministratori d’una banca, senza che lui mai ne fosse stato un amministratore». E lui: «Intanto, l’allora assessore Cuffaro, per queste illazioni, mi revoca un contributo comunitario, che era un mio sacrosanto diritto, ben 1.400 milioni delle vecchie lire».

Insomma, Becchina: niente mafia. Soltanto il commercio di antichità, magari anche italiane e non del tutto legali?
«Su questo, lo ripeto, è in corso un processo. Ho smesso di essere un mercante d’arte nel 1994; nel 1996, mi sono anche cancellato dal registro dei commercianti. Aggiungo che non ho mai introdotto clandestinamente un euro in Italia; e che tra i 4.000 oggetti sequestrati a Basilea, e poi non erano nemmeno tutti miei, non ce n’era uno scavato in Sicilia».

Gianfranco Becchina racconta la sua vita. «A 17 anni, nel 1956, vado in Sardegna, a Carbonia, dai miei parenti. Nati benestanti, qualcosa era andato storto in famiglia; fino al 1969, ritorno a Castelvetrano 15 giorni, quando muore mio padre. Rimango qui fino al 1972, poi emigro in Svizzera. A Basilea, divento commerciante d’antichità. Nel 1976, avendo guadagnato qualche soldino, mi faccio una casetta sul mare di Selinunte, anche usando i vantaggi del dopo-terremoto; nel 1988, compero l’altra metà di questa tenuta, e Palazzo Pignatelli Cortes, con la “s” anche se fuori è scritto con una “z”, nel centro di Castelvetrano. Intendevo creare un museo, anche se ora non ho più i soldi per farlo. E da lì inizia tutto. Qualcuno mi riteneva un prestanome, anche se non si capisce bene di chi». Una delle tre figlie vi gestisce pure un agriturismo. «Quando avrei potuto incontrare la mafia? Dal 1976 al 1988, sono stato qui solo per poche vacanze, e sempre meno di un mese». E l’Olio Verde? «Ora la crisi si sente; negli Usa, una riduzione del 40 per cento». Chissà se Barak Obama l’ha ancora sulla sua tavola.

Fabio Isman
per “Il Messaggero”

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