La politica ha usato i buchi della Giustizia Italiana che ha diversi difetti normativi, per farsi la guerra.
Pubblichiamo l’intervista con l’avvocato dell’associazione “vittime di errori giudiziari”. Uno Stato civile e libero deve avere regole chiare per tutti e pari opportunità processuali. Altrimenti l’uso della giustizia diventa politico
Ormai appare chiaro che, molti leader politici, invece di trovare soluzioni per risolvere i problemi dei cittadini , hanno pensato di più a come “fottere” l’avversario attraverso indagini e processi giudiziari ,con la complicità di alcune procure. il voto siciliano “boccia” questo sistema di delegittimazione degli avversari che passa spesso da indagini molto vaghe e carente di prove. Il boom mediatico aiuta già a condannare prima delle aule di tribunale. Nessuno però dice che il sistema italiano non tiene conto del “precedente giudizio vincolante ” che si applica negli Stati Uniti. In Italia, la legge si può interpretare e il giudice non è obbligato a tenere in conto di ciò che decide la Cassazione. Per cui in primo grado, può decidere secondo il suo modo di valutare le carte a prescindere dalle sentenze precedenti
«Negli ultimi dieci anni ci sono state 8.000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. È un numero enorme. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro. Le associazioni chiedono l’abolizione di questo tetto, così come nel caso di errore giudiziario, che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di equa riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall’assoluzione».
A parlare è l’avvocato Gabriele Magno, fondatore dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari. L’associazione, spiega, è nata dieci anni fa, quando lui e altri avvocati e giuristi si sono resi conto che non esisteva alcuna realtà che tutelasse le vittime della giustizia. E, oltre all’errore giudiziario e all’ingiusta detenzione, si occupa anche di una terza tipologia di problemi: l’eccessiva lunghezza dei processi.
Questo può accadere perchè la legge da molto più potere ai pubblici ministeri , rispetto ai diritti della difesa
Sempre più lunghi, pazzotici, in balìa dei pm. Ecco perché l’ultimo progetto di riforma del sistema penale evita di mettere mano alle vere storture del sistema
Avvocato Magno, perché l’Italia soffre da sempre di una giustizia lenta e inceppata?
«Perché, pur avendo inventato il diritto, ci siamo dimenticati di un suo caposaldo, che era già chiaro all’epoca dei romani: il precedente giudiziario è vincolante. È il principio su cui si basa la giustizia americana: la Corte Suprema emette 120 sentenze l’anno, ma tutti i tribunali e in tutti i gradi di giudizio vi si devono uniformare».
– E in italia, invece?
«I nostri riferimenti di giurisprudenza provengono dalle leggi. Il Parlamento legifera e il giudice deve applicare. Per farlo deve interpretare la legge. Le sentenze della Corte di Cassazione non sono vincolanti. Fanno giurisprudenza, ma ogni magistrato, ogni avvocato e ogni giudice trovano nella storia giurisprudenziale tutto e il contrario di tutto. La legge, poi, arriva spesso molto tardi rispetto al fenomeno che deve normare, e talvolta risulta inefficace già fin dal suo nascere. Ammesso che si faccia la legge…».
Che cosa intende dire?
«Che il Parlamento spesso agisce in base a ragioni di maggioranze, di opportunità del momento politico, di convenienza di una parte o dell’altra».
– Come dev’essere la durata di un “processo giusto”?
«I tempi sono noti: 3 anni per il primo grado, due anni per il secondo, e 1 anno per la Cassazione, l’ultimo livello di giudizio».
– E invece?
«E invece basta guardare ai ricorsi alla casistica di condanne dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per vedere quanti processi, specie civili, durano quindici, venti, o anche oltre 25 anni. In Italia è diventato quasi normale che si fissi l’udienza successiva di un processo civile due anno dopo, talvolta anche tre. Come si può aver fiducia in una giustizia che lavora con questi tempi?»
Qual è la vostra posizione? Che siano i magistrati in prima persona a pagare l’errore?
«No, noi non siamo del “partito anti-magistrati”. Anzi, pensiamo che la contrapposizione non aiuti affatto la giustizia. La nostra posizione è equilibrata: i magistrati possono sbagliare, come tutti; non ci interessa di punire i magistrati, ma che venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. Pensiamo, tra l’altro, che di fronte al rischio dell’indenizzo, il magistrato si autolimiterebbe e porrebbe molta attenzione nel prendere certi provvedimenti».
Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. O viceversa. La legge in materia penale passato in Senato con il ricorso al voto di fiducia – cioè senza nessun adeguato dibattito parlamentare lascia molte pereplessità. E per denunciare che il Ddl – al riparo da qualsiasi discussione – ha quasi generalizzato il processo a distanza nei confronti degli imputati detenuti per reati che non siano bagatellari, con buona pace per presenza e assistenza difensiva concentrate e dirette nonché per il principio di immediatezza e centralità della dialettica dibattimentale. Il Ddl, per il resto, si limita ancora una volta ai soliti pannicelli caldi senza arrivare al “dunque”, ossia senza affrontare i veri problemi: 1) la ragionevole durata del processo (art. 111 della Costituzione), senza la quale, tra l’altro, la sospensione dei termini di prescrizione dopo le sentenze di primo e secondo grado – pur condivisibile – appare a molti addetti un ampliamento dei cimiteri anziché un premuroso incremento degli ospedali ; 2) l’irrinunciabile centralità del dibattimento e non più delle indagini – indagini non solo preliminari ma sovente di polizia e basta, per via di quel cinico “principio di non dispersione dei mezzi di prova” che nel diritto vivente fa realisticamente conto dell’impossibilità di acquisire le prove dopo anni dal fatto – per un processo che si declama accusatorio ma che per ora è e mostra di restare più pericolosamente inquisitorio di prima; 3) l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione), ormai troppo spesso menzionata solo come inverecondo alibi o per scherzare; 4) l’impugnabilità di sentenze assolutorie da parte del pm per far dichiarare l’interdizione di coloro che sono stati assolti, un pm che tra l’incontentabile e l’irragionevole non raramente insiste per una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533 codice di procedura penale).
Il Ddl non parla dell’unicità indifferenziata delle carriere giudicanti e requirenti, madre di tutte le disfunzioni giudiziarie
Ma soprattutto il Ddl non fa un cenno all’unicità indifferenziata delle carriere giudicanti e requirenti, madre di tutte le disfunzioni giudiziarie, dei processi eterni e inconcludenti, delle guerre ai fenomeni sociopolitici più che ai singoli delinquenti, degli squilibri tra verificazione e falsificazione e tra accusa e difesa, dei non rari massacri giudiziari conclusi con un flop. Quell’unicità che da noi spesso consente di vedere – unico paese al mondo tra quelli che hanno adottato il processo accusatorio – arbitro e arbitrato operare allegramente a braccetto (con i tanti ausiliari di contorno ) quali tutori esclusivi di tutto ciò che è bene e giusto, alla faccia delle altre parti. Appiattiti l’uno sull’altro come pesci in barile (chi sopra, chi sotto?) in quanto avvinti da un leale rapporto di sana colleganza, da cartelle Word condivise, da solidarietà di appartenenza a uno stesso sistema, con modalità di ingresso e di carriera e di autogoverno assolutamente identiche.
Sono preoccupazioni che attengono non solo alle garanzie ma anche alla qualità del prodotto giudiziario, che troppo di frequente si rivela – e non penso solo a Consip, Mafia Capitale, Trattativa, concorsi esterni i più vari – in un primo tempo opinabile e divisivo e alla fine dei conti velleitario e basta. Ormai è diventata opinione affatto comune: solo chi per le ragioni più varie vuol fare lo gnorri può restare impassibile in presenza della sperimentata insufficienza di una professionalità indifferenziata di pandettisti universitari laddove sarebbero necessari, come in tutti i campi, approcci rigorosamente specialistici. Visto che il mondo è sempre più globalizzato e complesso, quantomeno in relazione sia ad attività terroristiche folli e terribili e diffuse oltre qualsiasi confine, sia a criminalità organizzata e delinquenza informatico-finanziaria sempre sovranazionali, aggiornate, affinate e per questo continuamente mutanti. Ecco perché oggi non può che fare infinita tenerezza il magistrato che nel corso della vita saltabecca disinvoltamente tra ruoli requirenti e giudicanti, laddove nel gioco delle parti occorrerebbero – da decenni se ne sono accorti in tutto il resto del pianeta, dove motivatamente si critica il nostro sistema – da una parte un pm tendenzialmente sprovincializzato, indipendente segugio di carriera, collegato con le reti internazionali e sempre aggiornato sia tecnologicamente sia criminologicamente e, dall’altra, un giudice “terzo” di/per carriera, professionalmente sereno ed equidistante sul suo alto scranno, culturalmente non suggestionabile e al di sopra delle parti in causa.
Fonte: Il Foglio ; Dossier
Il Circolaccio