Da un articolo pubblicato da Micromega nel 2010, Pubblichiamo la Postfazione di Salvatore Borsellino al libro, “1994. L’anno che ha cambiato l’Italia”. Da leggere fino in fondo.
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la postfazione di Salvatore Borsellino a “1994. L’anno che ha cambiato l’Italia”. Dal caso Moby Prince agli omicidi di Mauro Rostagno e Ilaria Alpi. Una storia mai raccontata” di Luigi Grimaldi e Luciano Scalettari, in libreria per Chiarelettere. Un libro che indaga il volto insanguinato della Seconda Repubblica.
Postfazione
di Salvatore Borsellino
Dal 19 luglio 1992, i manovratori delle luci hanno fatto calare le tenebre attorno alla scena della strage. Sono rimasti solo i riflettori accesi sul numero 19 di via D’Amelio. Con una luce forte, accecante, in maniera che gli occhi, colpiti da quella luce, non riescano a distinguere quello che succede attorno, in mezzo alle tenebre.
Buio sul castello Utveggio, su via dell’Autonomia siciliana, buio sul golfo di Palermo, sull’Arenella, sull’Acquasanta, le tenebre coprono tutto, si può solo sentire ogni giorno, alle 17, il suono delle sirene che arriva da via dell’Autonomia siciliana, le macchine blindate che sbucano d’improvviso da quelle tenebre in una via che dovrebbe essere sgombra, dove dovrebbe essere vietato fare sostare le macchine e che invece ne è tanto piena che, una volta entrati, se ne può uscire solo a marcia indietro.
Ogni giorno, alla stessa ora, il giudice scende dalla macchina lasciando la sua borsa di cuoio sul sedile posteriore, deve solo suonare il campanello della casa di sua madre e dirle di scendere perché deve accompagnarla dal cardiologo.
Tutti gli uomini e l’unica donna della sua scorta scendono insieme a lui e gli si fanno attorno, non hanno che il loro corpo per proteggerlo. Il giudice suona il campanello e non si capisce se riesce a pronunciare qualche parola prima che l’esplosione di centinaia di chili di tritolo, anzi di Semtex, l’esplosivo usato dai militari, scateni l’inferno. Antonino Vullo, l’autista della macchina del giudice, è restato dentro l’auto, sta facendo la manovra per essere pronto a ripartire appena il giudice ritornerà tenendo per il braccio la madre. Un’onda di calore lo sbalza all’indietro ma la macchina è blindata e resiste all’onda d’urto.
Ogni giorno, alla stessa ora, scende ferito e intontito dalla macchina e camminando sente sotto i piedi delle cose molli, sono i pezzi dei suoi compagni, cammina con i piedi in mezzo alle pozzanghere, è il sangue dei suoi compagni, del suo giudice, insieme ai quali, da allora, continuerà a desiderare di essere morto per non dovere rivivere ogni giorno e ogni notte, nei suoi terribili sogni, sempre la stessa scena.
Il giudice viene tagliato in due, il troncone del suo corpo viene sbalzato tra quel che rimane della cancellata e la facciata crollata del palazzo. Dei corpi dei ragazzi che lo proteggevano non rimane quasi nulla, una mano vola ogni giorno in alto, in una sequenza senza fine, e si ferma su quello che è rimasto su un balcone del quinto piano.
La madre del giudice sa che è scoppiata quella bomba che tutti sanno, da due mesi, servirà per eliminare, dopo l’altro giudice, anche suo figlio, ma, per pietà, il suo cervello le fa credere che siano scoppiate le tubature del gas e allora, a piedi nudi, corre per le scale, cerca di arrivare all’esterno, scende per quattro piani in mezzo alle macerie, alle vetrate distrutte, ma arriva giù senza un graffio. Forse suo figlio, prima di andare via per sempre, la prende in braccio e la porta giù, dolcemente e, quando passa vicino al suo corpo, le chiude gli occhi per non farle vedere quello che è rimasto di lui, quello che è rimasto di Emanuela, di Agostino, di Claudio, di Vincenzo, di Walter. In ospedale, dove la porta un pompiere che la raccoglie dalle braccia del giudice, dirà di non avere visto niente di quell’inferno che c’era davanti al numero 19 di via D’Amelio, di non avere visto il corpo di suo figlio, di non avere visto il sangue che riempiva la strada.
Ogni giorno alla stessa ora, qualcuno, dal castello Utveggio, vede distintamente il giudice che sta per premere il pulsante del citofono e preme il pulsante del telecomando che scatena l’inferno, il castello ora è immerso nelle tenebre ma da lassù l’ingresso del numero 19 di via D’Amelio si distingue chiaramente, illuminato dalla luce accecante dei riflettori ed è facile sincronizzare il comando al momento in cui viene premuto il campanello e non lasciare scampo al giudice e agli uomini della sua scorta.
Ogni giorno, alla stessa ora, il capitano Giovanni Arcangioli si avvicina alla Croma blindata del giudice e prende la borsa di cuoio che contiene l’agenda rossa, o è qualcuno a porgergliela, in mezzo alle fiamme e al fumo non si distingue bene, ma poi si allontana con passo sicuro, guardandosi intorno, verso via dell’Autonomia siciliana dove c’è qualcuno ad aspettarlo. Quell’attentato è stato preparato anche per poter avere in mano quell’agenda.
Nell’allontanarsi dalla macchina calpesta gli stessi pezzi di carne, lo stesso sangue che ha calpestato l’agente Vullo, ma dal suo viso non traspaiono emozioni, forse ha un preciso incarico da compiere, è come essere in guerra, e in guerra le emozioni devono essere controllate. Arriva in via dell’Autonomia siciliana ma qui le luci dei riflettori che illuminano la scena della strage non arrivano, c’è il buio, il buio assoluto e non si riesce a vedere a chi il capitano Arcangioli consegna la borsa e chi ne estrae l’agenda rossa del giudice [Il capitano Arcangioli è stato in seguito prosciolto nell’inchiesta relativa alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, nda]. Vediamo solo, ancora sotto la luce dei riflettori, qualcuno che un’ora dopo riporta la borsa, ormai vuota di quell’agenda che potrebbe inchiodare gli assassini del giudice e chi aveva interesse a eliminarlo, sul sedile posteriore della macchina blindata.
Sono passati sedici anni e ogni anno, al 19 di luglio, arrivano i padroni dei tecnici delle luci, portano delle corone, le appoggiano alle cancellate, si fanno fotografare, e intanto sorvegliano che tutto vada come previsto, che i riflettori siano sempre accesi con la loro luce accecante sul luogo della strage e che tutto intorno sia tenebra, che niente si riesca a vedere di quello che è successo, di quello che succede, intorno al luogo della strage.
Ma i tecnici delle luci possono controllare solo i riflettori, non possono controllare il cielo e ogni tanto, nel buio, qualche lampo arriva a squarciare le tenebre e lascia intravedere, anche se solo per un attimo, quello che loro non vogliono farci vedere, quello che non dobbiamo, non possiamo vedere, non possiamo sapere perché su di esso sono fondati gli equilibri e i ricatti incrociati che tengono in piedi questa Seconda Repubblica, questo nuovo regime fondato sul sangue delle stragi del 1992.
Ecco un lampo che squarcia le tenebre. Sono le 7 del mattino del 19 luglio, in via Cilea, a casa del giudice che è in piedi dalle 5, arriva una telefonata del suo capo, Pietro Giammanco. Non gli ha mai telefonato a quell’ora, e di domenica, non lo ha avvisato di un rapporto del Ros in cui si rivelava che era arrivato a Palermo un carico di tritolo per l’attentato al giudice (il quale ha potuto conoscere la circostanza per caso, all’aeroporto, incontrando il ministro Scotti) e che sui motivi di questa omissione con il suo capo ha avuto un violento alterco. Non gli ha ancora concesso, da quando è rientrato da Marsala prendendo le funzioni di procuratore aggiunto a Palermo, la delega per condurre le indagini in corso sulle cosche palermitane e, in conseguenza, la possibilità di interrogare senza la sua espressa autorizzazione pentiti chiave come Gaspare Mutolo. Ora, il 19 luglio, quando la macchina per l’attentato è già posteggiata davanti al numero 19 di via D’Amelio, gli telefona per dirgli che gli concede quella delega e gli dice una frase che, oggi, suona in maniera sinistra: «Così si chiude la partita». La moglie del giudice, Agnese, lo sente urlare al telefono e dire «no, la partita comincia adesso», e lo stesso giudice, qualche tempo prima, aveva confidato al maresciallo Canale, che lo affiancava nelle indagini, che «in estate avrebbe fatto arrestare Giammanco perché dicesse cosa conosceva sull’omicidio Lima».
Dal recarsi ai funerali del giudice lo stesso Giammanco venne dissuaso solo all’ultimo momento da un procuratore.
Ecco un altro lampo, è ancora il 19 luglio e si vede il giudice nella casa in cui si trasferisce in estate a Villagrazia di Carini, che invece di dormire per una mezzora, come è solito fare dopo aver mangiato, continua a fumare nervosamente tanto da riempire un portacenere di mozziconi, e intanto scrive sulla sua agenda rossa, poi prende la sua borsa di cuoio, vi mette dentro l’agenda e il pacchetto di sigarette, saluta i suoi e parte con la scorta verso il suo ultimo appuntamento, quello con la morte che, dopo l’omicidio di Giovanni Falcone, ha sempre saputo che sarebbe presto arrivata, tanto da continuare a dire a sua madre e a sua moglie: «Devo fare in fretta, devo fare in fretta».
Ecco un altro lampo e in mezzo alle tenebre che circondano il castello Utveggio. Si vede qualcuno in attesa, ecco che arriva una telefonata sul suo cellulare e allora punta il binocolo sul portone al numero 19 di via D’Amelio, vede scendere il giudice dalla macchina blindata, lo vede alzare la mano verso il pulsante del citofono, e allora preme un altro pulsante di un telecomando che stringe nella mano e subito si vede una colonna di fumo e si sente un boato, e allora, dopo avere osservato in mezzo al fumo, per un attimo, gli effetti dell’esplosione, prende il cellulare fa un numero e dice appena qualche parola. Poi il baleno provocato dal lampo finisce e tutto ripiomba ancora nelle tenebre.
Ecco un altro lampo, e si vede una barca nel golfo di Palermo, è piena di uomini, ma non sono persone qualsiasi, appartengono tutti ai servizi segreti, così che le loro testimonianze potranno, dovranno essere tutte concordi. È quasi l’ora dell’attentato e tutti sono in silenzio, sembrano attendere qualcosa. Poi si ode, attutito dalla distanza e dalla montagna, un tremendo boato, e dalla parte di Palermo verso il monte Pellegrino si vede alzare un’alta colonna di fumo e quasi subito arriva una telefonata. Il giudice è morto, quel maledetto ostacolo sulla via della trattativa è eliminato. Dai telefoni cellulari sulla barca partono altre telefonate concitate. Poi il motore viene acceso e la barca riparte velocemente verso il porto.
Per chiunque, in Italia, sono passate dalle quattro alle cinque ore prima di sapere che il giudice era morto, che quella morte annunciata era arrivata, ma per chi stava su quella barca sono bastati solo centoquaranta secondi per sapere tutto. Ora il baleno provocato dal lampo è finito e tutto è ripiombato nelle tenebre.
Un altro lampo, ma stavolta è troppo di breve durata per capire se è veramente Bruno Contrada quell’uomo che si aggira in via D’Amelio subito dopo la strage, come affermano due capitani del Ros, Umberto Sinico e Raffaele del Sole, che dicono di averlo saputo dal funzionario di polizia Roberto Di Legami che riportava a sua volta una relazione di servizio, poi distrutta, di alcuni agenti accorsi sul luogo della strage.
Ancora un altro lampo che squarcia per poco tempo le tenebre. È la fine di giugno e si riesce a vedere Vito Ciancimino che consegna al capitano De Donno e al colonnello Mori un foglio scritto a mano, il papello di Riina, con le dodici richieste del capo della cupola per fermare l’attacco al cuore dello Stato.
Un altro lampo. È il 1° luglio e si vede il giudice al ministero, davanti alla porta di Mancino, per un incontro a cui è stato chiamato dallo stesso ministro mentre stava interrogando Gaspare Mutolo. Il giudice ha annotato questo appuntamento nella sua agenda: «1° luglio, ore 19: Mancino». Ma la luce provocata dal lampo si esaurisce e non riusciamo a vedere chi c’è dietro quella porta ad aspettarlo e che cosa gli viene detto. Dall’agitazione del giudice quando torna a interrogare Mutolo si può solo immaginare che gli viene detto che lo Stato ha deciso di aderire alla richieste contenute nel papello. La reazione del giudice deve essere stata così violenta e sdegnata da non lasciare spazio, per procedere nella trattativa, ad altra possibilità se non quella di eliminarlo, e in fretta. Ma le tenebre sono troppo fitte per vedere qualcosa e solo Mancino ci potrebbe dire, se guarisse improvvisamente dalle sue amnesie, che cosa accadde veramente in quella stanza.
Altrimenti potremo solo aspettare, se mai avverrà, che una serie continua di lampi squarci le tenebre e allora potremo veramente vedere quali e quante mani, di quelle che oggi godono i frutti dei nuovi equilibri raggiunti, siano lorde del sangue delle stragi del 1992 e di quelle altre stragi che, nel 1993, furono necessarie prima che la trattativa venisse conclusa.
* * *
Scrissi questo pezzo nel settembre del 2008 (prima del proscioglimento del capitano Arcangioli), mi alzai in piena notte con queste immagini che mi balenavano davanti, come in un sogno a occhi aperti, ripensando a quanto nel corso degli anni, a partire da quel giorno di luglio del 1992, avevo letto, saputo, intuito sui motivi e sulle poche risultanze certe delle modalità di quella strage. Tutto mi appariva come un’unica scena illuminata, quella della strage, circondata dalle tenebre sulle circostanze che l’avevano determinata e sulle modalità di esecuzione. Quelle poche cose conosciute o intuite mi apparivano come scene staccate, illuminate da lampi che ogni tanto lasciavano intravedere una verità che non poteva e non doveva essere conosciuta.
Dal 1992 e dal 1993, gli anni delle stragi, e dall’anno del cambiamento della scena politica italiana, il 1994, è passato tanto tempo, eppure una verità completa, esauriente sulle stragi e sulla morte di Paolo e dei ragazzi della sua scorta non c’è ancora. Ma dopo tanti anni di battaglie per la verità oggi finalmente una verità l’abbiamo. Una sola: ci sono finalmente dei giudici che a Palermo, a Caltanisetta, a Firenze, a Milano, stanno portando avanti le indagini, e le cose stanno cambiando. Il 17 luglio del 2007, in occasione dell’anniversario di via D’Amelio, scrissi una lettera aperta che chiamai «19 luglio 1992, una strage di Stato», dove parlavo di un’agenda rossa, di Mancino, del castello Utveggio. Per molti di quelli che la lessero era come se stessi parlando dei marziani.
Ora, da quando Sergio Lari è procuratore a Caltanissetta e Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato portano avanti con determinazione a Palermo le istruttorie di nuovi filoni di indagine, improvvisamente tutto è cambiato. Ci sono tante persone che dopo diciassette anni sembrano aver ritrovato la memoria e cominciano a parlare. E su tutti i giornali, alla televisione, si parla di trattativa, di papello, anche se non ancora – ma ancora per poco – di strage di Stato.
Già nel 2007 dicevo che la trattativa era il vero motivo dell’assassinio di Paolo Borsellino. Che Paolo sarebbe stato ucciso lo sapevano tutti, lui per primo, dal momento in cui era stato ucciso Falcone. Uccidere l’uno senza uccidere l’altro non sarebbe servito a nulla perché erano due magistrati che lavoravano con gli stessi fini e con lo stesso sogno di sconfiggere la criminalità organizzata in Sicilia e nel resto del paese. Oggi a portare verso l’ipotesi di una strage di Stato ci sono le rivelazioni di Brusca, di Spatuzza, e le rivelazioni e i documenti prodotti da Massimo Ciancimino. Fatti e nomi che ritornano anche in questo libro, in questa ricerca che tratteggia anche connessioni diverse e che, anche per altri fatti e per altre piste, conduce allo stesso scenario, alle connessioni tra mafia e servizi, tra lo Stato e il sistema criminale, tra la politica e il potere mafioso, che oggi si è purtroppo annidato all’interno delle stesse istituzioni.
Penso prima di tutto alle conseguenze di quella sciagurata trattativa e al fatto che lo stesso Ciancimino, alla domanda del perché certe cose di gravità inaudita le racconti solo oggi, ha risposto che soltanto adesso qualcuno è andato a cercarlo per porgli certe domande.
Fino a oggi non l’aveva fatto nessuno, e quando le indagini andavano in certe direzioni tutto si fermava, o meglio veniva fermato.
Quando si andava a vedere quali erano le collusioni e le connivenze all’interno dello Stato che avevano portato all’eliminazione di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone, o quantomeno all’accelerazione delle stragi di via D’Amelio, sembrava che ci fosse un limite invalicabile oltre il quale non era permesso andare e le indagini si fermavano… Anche politici e figure di rango istituzionale, tranne per ora Nicola Mancino, cominciano a far riaffiorare ricordi sepolti da lunghi anni di reticenze e di silenzi.
Oggi sembra che finalmente l’aria sia cambiata e che si siano create le condizioni per fare dei passi decisivi verso la verità. Ma è una verità che fa paura a molti, anche se molti, proprio per paura di essere coinvolti in maniera più pesante nelle indagini in corso, cominciano a dire quello che sanno e che per anni avevano taciuto.
So che c’è da temere che ora i poteri occulti che hanno portato a quelle stragi e che hanno poi impedito che si arrivasse alla verità prendano le contromisure, non con l’esplosivo, che forse è passato di moda e ha come controindicazione la rivolta della società civile, ma con quegli stessi metodi che sono stati usati con magistrati scomodi come Luigi de Magistris, Clementina Forleo, Gabriella Nuzzi e l’intera Procura di Salerno.
Oggi, come io ho sempre ritenuto, sta venendo alla luce che la trattativa tra mafia e Stato sia nata, non come si pensava e come sostenevano i Ros dei carabinieri, dopo la strage di via D’Amelio, ma già dopo la strage di Capaci. La trattativa è alla base della strage di via D’Amelio. Paolo e la sua scorta sono stati massacrati per permettere alla trattativa stessa di andare avanti, e per impedire a Paolo, come sicuramente avrebbe fatto se non fosse riuscito a fermarla, di rivelarla all’opinione pubblica.
Si parla sempre di «trattativa» come se fosse l’unica, ma non è così. Lo Stato con la mafia, con l’anti-Stato, ha sempre «trattato», da Portella della Ginestra in poi. Per capire gli eventi che hanno preparato la svolta del 1994 bisogna andare indietro almeno fino al 1991, un anno chiave nelle vicende raccontate in questo lavoro.
Tutto va ricondotto a un momento storico, il maxiprocesso di Palermo a seguito del quale il Gotha della mafia viene condannato a pesanti pene detentive. I collaboratori di giustizia hanno riferito che la parola d’ordine che circolava tra i mafiosi era di stare tranquilli perché tanto poi si sarebbe aggiustato tutto, come era sempre accaduto, perché i processi venivano sempre annullati dal giudice Carnevale e dalla I Corte di cassazione.
Invece che accade nel 1991? Che Falcone va al ministero di Grazia e giustizia, riesce a individuare il cuore del problema e ottiene di far passare il criterio della rotazione delle sezioni. In base a questo criterio non saranno più la prima sezione e il giudice Carnevale a occuparsi del maxiprocesso ma sarà un’altra Corte. È così che la storica sentenza del maxiprocesso di Palermo viene confermata. Ed è a questo punto che i vertici della criminalità organizzata ritengono che il patto che c’è sempre stato tra Stato e mafia, e che è stato sempre rispettato, sia stato invece violato.
Insomma «questa» trattativa, l’ultima in ordine di tempo, doveva rimettere a posto gli equilibri con la mafia. Una nuova trattativa resasi necessaria dopo che la mafia ha ritenuto che non fossero più affidabili i vecchi interlocutori, Lima, i fratelli Salvo, Andreotti. E non solo ritengono rotto il patto ma reagiscono uccidendo Salvo Lima e uno dei fratelli Salvo impedendo così che Andreotti possa diventare, come era nell’aria, presidente della Repubblica. Il messaggio è stato lanciato forte e chiaro, la mafia cerca nuovi referenti.
Forse aveva già cominciato a cercarli anche prima. Anzi, la mafia da quel momento in poi vuole di più, e percorre l’ipotesi di formare nuovi partiti, partiti della mafia, espressione diretta della criminalità organizzata, non semplicemente punti di riferimento della mafia. L’ambizione è diversa, è nuova, punta a far nascere movimenti politici per cui la mafia «sarebbe diventata Stato», come ha riferito un collaboratore di giustizia.
Un piano strategico senza precedenti, una guerra con bombe, morti e feriti. La mafia che diventa Stato. Alla fine mi pare che sia esattamente ciò che è accaduto, perché credo che non ci sia stato mai prima d’ora, in Italia, un’epoca in cui l’anti-Stato è penetrato così profondamente nei meccanismi dello Stato, arrivando fino ai vertici delle istituzioni. Penso che questa sia la realtà del nostro paese di oggi. E perché questo si potesse realizzare Paolo Borsellino doveva essere eliminato. E la sua agenda rossa sparire.
In quella fase ci fu la creazione di diversi partiti e leghe del Sud, con una complessa manovra che si era svolta sotto la supervisione di Marcello Dell’Utri. Poi, d’improvviso, le cose cambiano e si decide di appoggiare un partito che ancora doveva nascere. Quale sia questo partito ce lo ha spiegato l’attuale presidente del Consiglio, che in uno dei primi congressi di Forza Italia, indicando Marcello Dell’Utri disse: «Senza quest’uomo Forza Italia non esisterebbe».
Dell’Utri, lo stesso che insieme al presidente del Consiglio ha proclamato eroe Vittorio Mangano, stalliere di Arcore e pluriassassino, quel Mangano che risulta condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che oggi qualcuno vorrebbe abolire. Quanto a Dell’Utri, la condanna per lo stesso reato è stata confermata in appello.
Alcuni collaboratori hanno rivelato che all’interno delle cosche mafiose circolava la consegna che il nome di Dell’Utri non doveva neanche essere fatto, tanto importante era il suo compito strategico. È una persona che non deve essere neanche nominata.
Tutto nasce dal maxiprocesso e dalla successiva conferma degli ergastoli in esso comminati. Questi eventi hanno avviato quel processo che ha portato alla nascita di Forza Italia e alla nascita, nel 1994, della Seconda Repubblica. Che per me quindi nasce direttamente dalle stragi del 1992 e da quelle del 1993, compiute per alzare il prezzo della «trattativa».
Sono andato via da Palermo quarant’anni fa, non ho potuto stargli fisicamente accanto nei periodi più importanti della sua vita. Oggi vengo a sapere che mio fratello, prima di essere ucciso, disse di essere stato tradito da un amico. Oggi io non posso più fidarmi di quelli che mi dicono di essere stati amici di Paolo, anzi… Diciassette anni fa, dopo la strage, rifiutammo i funerali di Stato.
Quest’anno ho voluto impedire che questi funerali di Stato ci venissero imposti, come ogni 19 luglio, dalle autorità che vengono a ogni ricorrenza in via D’Amelio a porre corone sul luogo di quella strage che lo Stato, nella migliore delle ipotesi, non ha saputo né voluto evitare.
È bastato annunciare che una folla di persone con delle Agende rosse in mano avrebbe presidiato per tutto il giorno il luogo della strage per far sì che, per la prima volta in diciassette anni, nessun rappresentante istituzionale si affacciasse in via D’Amelio. Era stata preparata una lapide con l’effigie di Mangano e la sua data di nascita e di morte. Avremmo detto a chi avesse portato delle corone, per celebrare dei riti di morte per chi è oggi invece più vivo che mai, di porle davanti all’effigie di quel nuovo loro eroe.
Il giorno precedente una folla di persone con le Agende rosse levate in alto ha percorso la strada che da via D’Amelio porta fino al castello Utveggio, lì dove, come dice la sentenza del processo Borsellino-bis c’era una sede del Sisde, i servizi segreti civili italiani. Da quel castello partirono le telefonate che, nel giro di centoquaranta secondi dalla strage, diedero la certezza a qualcuno che si trovava in una barca ancorata nel golfo dell’Acquasanta che la strage era stata effettuata e che Paolo Borsellino, l’ultimo ostacolo alla trattativa, era stato eliminato. Le prime volanti arrivarono in via D’Amelio sette minuti dopo la strage, io ci misi cinque ore a sapere che mio fratello Paolo era stato ammazzato. Ne fui certo soltanto quando mia madre mi telefonò dall’ospedale per dirmi: «Hanno ucciso tuo fratello».
Il giorno seguente, davanti al Palazzo di giustizia di Palermo, lo stesso popolo delle Agende rosse ha manifestato la sua solidarietà ai magistrati della Procura.
Il 26 settembre di quest’anno una folla di persone arrivate a proprie spese a Roma da ogni parte d’Italia ha levato in alto le Agende rosse per le vie della capitale, e ha manifestato a piazza Navona, levando in alto solo quelle agende e le bandiere italiane, per la LIBERTÀ, la VERITÀ e la GIUSTIZIA. Una manifestazione che è stata completamente ignorata dai mezzi di informazione. Forse quelle Agende rosse a qualcuno fanno troppa paura, o risvegliano colpe e ricordi che si vogliono seppellire.
Io ritengo che il patto tra Stato e mafia sia stato siglato e che la trattativa, dopo l’uccisione di Paolo, si sia conclusa. Lo dimostra il fatto che l’attentato più catastrofico, quello preparato allo stadio Olimpico nell’ottobre del 1993 non fu portato a termine. Dissero che non avevano funzionato i telecomandi. Qualche volta i telecomandi usati dalla mafia possono non funzionare, ma di telecomandi usati dai servizi segreti che non abbiano funzionato non ne ho notizia. Hanno funzionato alla Banca dell’Agricoltura a Milano, a piazza della Loggia a Brescia, sul treno Italicus, sul Rapido 904, alla stazione di Bologna, per tutte le stragi di Stato che hanno preceduto quella del 19 luglio del 1992.
E chi ha tempo e voglia di capire quanto è successo, apra le pagine di questo libro e i «lampi nel buio» si faranno sempre più frequenti e illumineranno sempre più a lungo la scena di via D’Amelio e di tutto il nostro disgraziato paese. A patto che riusciate a resistere al disgusto provocato del «puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità » che saltano fuori da ogni pagina, e abbiate voglia di tornare a sentire quel «fresco profumo di libertà» per cui Paolo e i suoi ragazzi hanno sacrificato la loro vita.
Un profumo che da quel puzzo è stato completamente sommerso e che potremo ritornare a sentire solo se le nostre parole d’ordine, come per tutto il popolo delle Agende rosse, saranno queste: «RESISTENZA, RESISTENZA, RESISTENZA».
Da un articolo di Micromega del 28 ottobre 2010