Direzione Antimafia : l’incompiuta dell’antimafia
Solo coordinamento, nessun potere
I tre Pm palermitani, Del Bene , Di Matteo e Principato approdano alla superprocura. Doveva essere uno strumento in più, ma le armi sono rimaste spuntate
Tanto rumore per nulla
Promoveatur ut amoveatur :(Sia promosso affinché sia rimosso).
Un modus che in Sicilia è stato più volte utilizzato.
Teresa Principato , per anni in prima linea contro la cosca capeggiata da Matteo Messina Denaro, tanti arresti, centinania di aziende confiscate e del boss nemmeno l’ombra. Rimane invece un territorio distrutto e senza aver centrato l’obiettivo. Potev rimanere ancora a Palermo?
Per alcuni è un approdo sicuro, persino un paracadute di lusso. L’epilogo di una carriera fra le file dell’Antimafia. Quella che da sempre teorizza i massimi sistemi criminali e si fa breccia lontano dalla Sicilia, guadagnandosi la ribalta mediatica nazionale. È a Roma, alla Direzione nazionale antimafia, che i discorsi si fanno alti che più alti non si può, laddove si sottolinea l’immanenza delle mafie – ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra – nella società italiana. Sguardi d’insieme, anni di studio che confluiscono in copiose relazioni, frutto del coordinamento delle varie Procure distrettuali del Paese.
La missione della Dna è, appunto, il coordinamento. Un ruolo che di operativo ha nulla o quasi. E dire che la Direzione nazionale, ideata negli anni Novanta, quando la mafia alzava l’asticella dell’orrore con le stragi, voleva essere lo strumento in più contro chi sfidava lo Stato. Doveva nascere una Superprocura a immagine e somiglianza di Giovanni Falcone, uno che la mafia l’aveva capita fino in fondo. L’obiettivo era lasciarsi alle spalle il provincialismo e il protagonismo giudiziario delle singole Procure per creare un organismo capace di offrire una riposta complessiva allo strapotere dei boss. Le polemiche furono aspre da parte di chi denunciava il pericolo della concentrazione di potere in una sola persona e la commistione, se non addirittura l’ingerenza, della politica nel lavoro della magistratura.
Un rischio che non si è mai concretizzato anche e soprattutto perché quasi tre decenni dopo le armi della Dna sono rimaste spuntate. Le indagini non sono materia della Procura nazionale che supporta, coordina, rimpingua il cervellone della banca dati, studia i fenomeni di criminalità organizzata e terrorismo, esprime pareri non vincolanti, cura i rapporti con le autorità giudiziarie di paesi stranieri. Un ufficio che si occupa di tutto tranne che di indagini, le quali restano appannaggio quasi esclusivo delle Procure distrettuali. E quando qualcuno ha provato ad andare oltre il recinto del coordinamento ha consegnato alle cronache un guazzabuglio, simbolo di tutte le impotenze e forse anche delle presunzioni di questo organismo.
L’unico guizzo operativo si registra quando il procuratore nazionale o uno dei suoi venti sostituti deve intervenire per mettere la pace fra Procure “gelose” delle proprie indagini. Come accadde fra i pm di Palermo e Caltanissetta che arrivarono ai ferri corti sulla gestione di Massimo Ciancimino. Nel 2011 Francesco Messineo e Sergio Lari, alla guida dei due uffici giudiziari, sottoscrissero una tregua davanti all’allora procuratore nazionale Pietro Grasso. I pm nisseni si sentirono scippati dell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Ciancimino jr per calunnia. Un arresto chiesto e ottenuto dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il cui approccio con il figlio di don Vito non era stato certo laico, a tal punto da definirlo una ”quasi icona dell’antimafia”. Un po’ pochino, quel “quasi”, per lasciare aperto il beneficio del dubbio sull’attendibilità del super testimone che sarebbe presto crollata. Ciancimino jr falsificò, così recita l’atto d’accusa, un documento consegnato ai magistrati del capoluogo siciliano inserendo il nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, in una lista di servitori infedeli dello Stato attribuita a don Vito Ciancimino.
Episodio diverso, ma reato uguale a quello per cui Ciancimino jr, un anno prima del suo arresto, era stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Caltanissetta che gli contestava di aver accostato il nome del super poliziotto a quello del signor Franco, il fantomatico agente dei servizi segreti. Franco o Carlo – avrebbe pure il doppio nome – è stato più volte riconosciuto da Ciancimino jr che servì l’ultima bufala indicando la fotografia di Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica. Il consigliere per l’informazione del Quirinale si affrettò a scrivere appena qualche riga per dire che la vicenda era talmente ridicola da non meritare alcun commento. L’arresto di Ciancimino fu l’ennesimo episodio di una diversa valutazione, chiamiamola così, del testimone. A Caltanissetta si sorpresero che i colleghi avessero deciso di “scavalcarli” per arrestare Ciancimino, allora come oggi uomo chiave del processo sulla Trattativa Stato-mafia.
Grasso mise la pace, obbedendo ai compiti del procuratore nazionale antimafia. Ci sarebbe anche un margine di maggiore operatività come previsto dall’avocazione delle indagini. Per “strappare” un fascicolo ai colleghi distrettuali, però, gli si dovrebbe contestare un’imperdonabile inerzia. E allora si va avanti nell’onesto, e volte anche utile, lavoro di coordinamento e supporto da parte dei magistrati in servizio alla Dna. Gente preparata, per carità, che vi arriva a fine carriera o nell’attesa di tornare in trincea. È il caso di Francesco Del Bene, pubblico ministero a Palermo che ha indagato sui clan di una grossa detta della provincia e inserito nel pool del processo sulla Trattativa. Adesso da sostituto nazionale coordina le indagini sui clan di Agrigento e Trapani.
Per altri il trasferimento a Roma è un’occasione per liberasi di lacci e lacciuoli che zavorrano la ricerca della verità. Una ricerca che, ad onor del vero, è stata tutto fuorché frenata od ostacolata. Va avanti da anni, dilatando le categorie spazio-temporali. Le indagini si fanno e pure i processi, con esiti che, però, finora hanno picconato le ricostruzioni dell’accusa. Negli uffici della Direzione nazionale antimafia, lo scorso giugno, è arrivato Antonino Di Matteo. Per la memoria storica della Trattativa l’approdo romano ha segnato la fine di una parentesi che riteneva soffocante. Non si sentiva messo nelle “condizioni di lavorare a tempo pieno su inchieste delicatissime”. I procedimenti della piccola (?) giustizia quotidiana – furti, truffe e reati comuni – lo distraevano dalle indagini che contano. “Non poteva continuare all’infinito”, spiegava Di Matteo. A toglierlo dall’imbarazzo è arrivato il nuovo incarico, ottenuto dopo una paio di tentativi andati a vuoto, ricorsi amministrativi respinti e le polemiche per l’immissione nel nuovo ruolo congelato dal “posticipato possesso”. Di Matteo si sentirà finalmente libero di continuare a concentrarsi, almeno a Palermo, solo ed esclusivamente sulla Trattativa a cui, fra indagini e processi, lavora ormai dal 2010. E chissà quanto tempo ancora sarà necessario. L’ultima incognita riguarda i racconti carcerari di Giuseppe Graviano. Migliaia di pagine riversate nel processo, tutte da trascrivere, che incidono di parecchio nella stessa impostazione accusatoria.
Fonte : Live Sicilia