Era il 26 luglio del 1992 quando Rita Atria morì precipitando dal balcone dove abitava
Rita Atria :« Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta»
Si uccise , secondo gli inquirenti, a 17 anni una settimana dopo la strage di via D’Amelio perché proprio per la fiducia che riponeva nel magistrato italiano Paolo Borsellino . Rita si era decisa a collaborare con gli inquirenti. Sono passati 25 anni e questa rimane un ‘altra pagina di storia legata a Borsellino tutta da decifrare
Nel 1985, all’età di undici anni Rita Atria perde il padre Vito Atria, mafioso della locale cosca ucciso in un agguato. Alla morte del padre Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata Piera Aiello. Da Nicola, anch’egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola Atria viene ucciso e sua moglie Piera Aiello, che era presente all’omicidio del marito, denuncia i due assassini e collabora con la polizia[2].
Rita Atria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di seguire le orme della cognata, cercando nella magistratura giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è il giudice Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala), al quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala e di avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco di Partanna[3][4].
Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, in cui perde la vita il giudice Borsellino, Rita Atria si uccide a Roma, dove vive in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia, 23.
Rita Atria per molti rappresenta un’eroina, per la sua capacità di rinunciare a tutto, finanche agli affetti della madre (che la ripudiò e che dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate), per inseguire un ideale di giustizia attraverso un percorso di crescita interiore che la porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una vera giustizia. Rita (così come Piera Aiello) non era una pentita di mafia: non aveva infatti mai commesso alcun reato di cui pentirsi. Correttamente ci si riferisce a lei come testimone di giustizia, figura questa che è stata legislativamente riconosciuta con la legge 45 del 13 febbraio 2001