Tra le numerose storie e leggende che arricchiscono di sfumature oscure e misteriose la tradizione popolare palermitana e castelvetranese ce n’è una che parla di un mondo dorato e decadente, affascinante e impenetrabile che si snoda tra sontuose stanze ed eleganti saloni. È quella del Grand Hotel delle Palme di Palermo.
Per molti anni, fu la residenza di Giuseppe Di Stefano di Castelvetrano, detto «il barone Sciacca»
Come nei migliori romanzi noir, questo sontuoso edificio liberty di Palermo dall’aspetto imponente e maestoso – é stato crocevia di intrighi del potere, trame di mafia, scandali politici, misteriosi fatti di cronaca e avventure di personaggi stravaganti. Ancora una volta Castelvetrano diventa interessante per le cronache internazionali. La vita di “lu baruni” affscina scrittori e giornalisti di mezzo mondo. Buona parte la sua eredità è stata trasferita all’avvocato Giuseppe Messina che risiede a Castelvetrano
“lu baruni Sciacca” di Castelvetrano ha vissuto gran parte della sua vita in una suite dell’albergo frequentato da notabili, mafiosi di rango e politici
Perchè fugge da Castelvetrano? Che rapporti ha avuto con la classe dirigente della città?
Lu Baruni si incontra spesso con Giacinto De Simone a capo, con i suoi fratelli,dell’azienda vinicola vicina alla stazione ferroviaria di Castelvetrano. Negli anni ’50, la famiglia De Simone e Giuseppe Di Stefano, con la famiglia Taormina proprietari della Saica, una società che avrà come obiettivo l’acquisto del fabbricato dove vi erano le vecchie carceri di via Vittorio Emanuele. I titolari dell’affare abbattono l’antico immobile , vendendo l’area al Banco Di Sicilia. Subito dopo la società verrà sciolta. Le proprietà del barone sono tante. Stranamente l’intero quartiere Belvedere sorge sui terreni del Barone. Tra gli anni 70 e 90 , in quella zona sorgono anche palazzine dello Iacp (l’Istituto Autonomo Case Popolari) e villette a schiera di varie società cooperative con tanto di concessione del comune. La costruzione di Case popolari in terreni non espropriati come da norme vigenti consentirà nel 2013 all’unico erede avvocato Giovanni Messina di ottenere un risarcimento milionario al comune di Castelvetrano
La lista di fatti misteriosi legati al Grand Hotel delle Palme si snoda attraverso la vicenda dello scrittore e poeta francese Raymond Roussel, trovato morto dissanguato nel bagno della sua camera. Secondo quanto riferito dal personale dell’albergo, già nei giorni precedenti alla sua morte, qualcosa – pare all’interno dell’hotel – lo inquietò a tal punto da tentare il suicidio, avvenuto nel luglio 1933. E se la frettolosa tesi ufficiale parla di suicidio per overdose di barbiturici c’è chi, come lo scrittore Leonardo Sciascia, sostiene l’ipotesi che dietro la sua morte si nasconda dell’altro. Un mistero ancora insoluto che aleggia tra i corridoi dell’edificio.
Negli anni l’hotel diventerà il centro direzionale di operazioni di intelligence ma anche di relazioni pericolose con esponenti della mafia siculo-americana. Tra i lussuosi saloni di via Roma, Vito Genovese incontrava Charles Poletti, capo degli affari civili dell’amministrazione militare americana, nello stesso periodo in cui il boss Lucky Luciano soggiornava in compagnia della giovane amante Virginia Massa.
Qualche anno più tardi, a metà degli anni ’50, Lucky Luciano si sarebbe ritrovato con personaggi del calibro di Joe Bananas, Carmine Galante, Santo Sorge, Frank Garofalo, Vincenzo Rimi, Cesare Manzella e Rosario Mancino, per discutere l’eliminazione di Albert Anastasia.
L’ombra della mafia aleggia anche sulla vicenda di uno dei più illustri e celebri ospiti dell’albergo, Giuseppe Di Stefano di Castelvetrano, «il barone Sciacca», personaggio eccentrico ed enigmatico che, già in vita, entrava a pieno titolo nell’immaginario collettivo dei suoi concittadini: forse il viatico per sfuggire a un misterioso ricatto.
Residente in pianta stabile dell’albergo, visse la sua misteriosa e solitaria esistenza isolato in un volontario esilio dorato tra i suoi specchi, stucchi e velluti.
A monte del suo isolamento un omicidio avvenuto in quel di Castelvetrano di cui nulla si sa di certo: c’è chi accenna ad un tragico incidente mentre altri, invece, giurano che «qualcosa accadde a Castelvetrano, ma non quello che si dice». All’interno dell’hotel Di Stefano visse gli anni della sua seconda vita, fatta di gioco, alcol e donne ma anche musica, letteratura, arte e poesia. Testimoni presenti giurano che il barone – che in realtà altro non era che il rampollo di una famiglia della malavita siciliana – si accompagnasse spesso con signorotti e mafiosi locali partecipando, seppur indirettamente, agli intrighi e agli scandali politici dell’epoca. Malgrado fosse circondato da un’aura mondana e cosmopolita, a fine serata si ritirava in un’impenetrabile solitudine, lasciando il resto del mondo all’esterno. Una volta chiusa la porta dietro di sé a nessuno fu mai dato di sapere cosa accadesse nella sua camera. Di lui scriveva, nel lontano 1995, Famiglia Cristiana: tra le pagine del giornale prendeva vita la storia del “barone Sciacca”, fatta di morte, mafia e denaro e tracciata da contorni quasi fiabeschi. Si parlava dell’omicidio, delle sue abitudini, di un matrimonio (mai realmente attestato) con una lontana parente e di un lascito monetario giunto nelle sue mani in circostanze poco chiare. Quale che fosse la verità sul suo vissuto e sulla sua morte, la leggenda del barone non è mai stata smentita e ancora oggi continua ad arricchire storie e aneddoti della tradizione orale cittadina.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta le sale del Grand Hotel delle Palme furono testimoni delle intricate e oscure trame della politica culminate con la caduta del governo autonomista di Silvio Milazzo e il diffondersi dello scandalo della compravendita di voti di fiducia.
Da quel momento le «Palme» divennero scenario di un lungo e affascinante parterre di personaggi Renato Guttuso, Giorgio De Chirico, Tino Buazzelli, Francis Ford Coppola, Al Pacino e Vittorio Gassman (che proprio lì visse i giorni antecedenti alla morte) lasciando, durante le loro visite, tracce nei ricordi del personale e della cronaca locale. Ma un alone di mistero fascinoso e coinvolgente come i suoi protagonisti.
Nel corso di questo misterioso esilio, i suoi beni furono gestiti da illustri avvocati di Castelvetrano. Anche l’avvocato , Giuseppe Bongiorno sindaco di Castelvetrano e Senatore della Repubblica dal 2001 al 2006
Ad occuparsi del Barone durante i suoi ultimi anni è invece l’avvocato Giovanni Messina, riconosciuto in tempo come figlio ed unico erede di tutte le sue sostanze.
Il barone imprigionato all’ Hotel delle Palme
La testimonianza di un cameriere dell’albergo
AllA sua morte gli hanno messo una maschera di cuoio, come aveva tassativamente scritto nel suo testamento. A un domestico aveva confidato che non avrebbe voluto dare la soddisfazione ai nemici di vedere la sua faccia. Questo particolare però non c’ è nel romanzo che il francese Philippe Fusaro ha scritto sulla singolare vita di Giuseppe Di Stefano, il barone che per oltre mezzo secolo è vissuto da recluso volontario nella prigione dorata del Grand hotel et des Palmes. Il racconto del barone prigioniero si intitola “Palermo Solo” (edizioni Barbès, 194 pagine, 12 euro), un titolo fuorviante che poco richiama la singolare avventura umana del protagonista, costretto dalla mafia a scegliere tra una morte violenta e una vita da recluso, dopo che, a quel che si tramanda, aveva ucciso un ragazzino scoperto a rubare mandorle nel suo feudo. Probabilmente il libro pubblicato in lingua francese (la traduzione italiana è di Tommaso Gurrieri) ha voluto richiamare in copertina quel “Dimenticare Palermo” di Edmonde Charles-Roux (una delle opere più illuminanti sul capoluogo isolano, nonostante l’ autrice ci abbia candidamente confessato nella sua casa parigina a pochi passi dal Louvre, di non averci mai messo piede) che tanto successo ha riscosso oltralpe.
Il romanzo di Fusaro, nato in Lorena ma di origini pugliesi, ripercorre la vita del bizzarro blasonato mischiando fatti reali con fantasie, solitudine con amori travolgenti, paura con incoscienza, sbornie di allegria con reiterati tentativi di suicidio. Solo l’ ambientazione è rigorosamente veritiera,e non poteva essere diversamente, visto che la narrazione si snoda nei dorati ambienti di un hotel che ha segnato tappe rimarchevoli della vita palermitana.
Ma al di là dei romanzeschi languori con una dama somigliante come una goccia d’ acqua alla diva Ava Gardner, qual è stata la vera vita del barone di Stefano, nato a Castelvetrano e che il destino ha trascinato nella suite numero 24 delle Palme dove novantaduenne è morto nel 1998? Ne parliamo con Toti Librizzi, storico barman del Grand hotel, che per trent’ anni ha shakerato cocktail per gli illustri ospiti dell’ albergo. È vero che il barone non usciva mai? «Sì e no. Ogni tanto, negli anni Settanta, evadeva. Salpava per Napoli, dove si favoleggiava che avesse una donna. È più probabile che andasse ad assistere alle rappresentazioni delle opere liriche. Il barone era un melomane fanatico. E lo testimonia la sua intima amicizia con il tenore suo omonimo e con Mario Del Monaco. Ogni volta che c’ era una prima al Massimo o al Politeama invitava gli artisti a una sontuosa cena in hotel, con le primizie che faceva arrivare dai suoi possedimenti, o dalle pasticcerie di Castelvetrano. Amava la vita e le feste.
I tentativi di suicidio raccontati nel romanzo del francese sono solo fantasie». In quali altri posti andava di soppiatto? «Ad agosto il barone si trasferiva a Villa Igiea; anche lì era di casa. Aveva anche l’ abitudine di fare il giro dell’ isolato dopo il pranzo. Da via Roma svoltava per via Wagner e poi ritornava da via Principe di Granatelli. Per il resto si faceva portare in albergo quel che gli serviva. C’ era un funzionario del Banco di Sicilia che gli portava i soldi di cui necessitava. E poi, il barbiere ogni giorno, il sarto quando serviva. Tutti nella suite». Si racconta che il 2 novembre si recasse al cimitero di Castelvetrano per portarei fiori sulle tombe dei genitori. È vero? «Sì, lo faceva però clandestinamente. Un autista lo veniva a prendere alle due di notte, lo accompa gnava al cimitero, dove nottetempo c’ era ad attenderlo il custode.
Alle cinque era già di ritorno». C’ era davvero la questione mafiosa? Lui cosa rispondeva a chi glielo chiedeva? «In pochi hanno osato domandarglielo,e a maggior ragione noi del personale. “Sono favole”, tagliava corto infastidito». Nel romanzo è scritto che frequentava il bel mondo che transitava dall’ hotel: Guttuso, la Fracci, Visconti e Burt Lancaster durante le riprese del “Gattopardo”, Fred Buscaglione, Maria Callas, Primo Carnera, Patty Pravo… «Tutto vero.
Questi e tanti altri. Veniva persino il cardinale Salvatore Pappalardo a trovarlo. Cenavano assieme, al “tavolo del barone”, punto di riferimento per indicare i vari angoli della sala. Tutti erano lusingati dal suo invito, affascinati dal suo carisma e incuriositi dalla sua storia. Uomo di letture, era un abile conversatore. Ammaliava tutti con quel suo linguaggio frammisto di italiano e dialetto.
Era amico anche dell’ avvocato Paolo Seminara. Prima non entrava mai al bar dell’ hotel. È stato Guttuso a farne un compagno di bevute. Poi, ci veniva da solo. Carla Fracci e tanti altri gli scrivevano sempre, ma lui non se ne curava. “E che posso perdere tempo a rispondere a tutti”, diceva divertito». Amicizie pericolose? «Due italo americani che lo venivano a trovare ogni anno: Giacinto Di Simone e Charles Orlando. Personaggi forse in odore di mafia. Il secondo venne arrestato proprio alle Palme nel 1965».
Lei ha visto la maschera sul volto del barone morto? «Sì, era di cuoio. Il personaggio era fuori da ogni logica. E l’ albergo gli ha voluto riservare l’ onore di uscire da defunto dall’ ingresso principale, con tutti i dipendenti schierati, contravvenendo alla consuetudine di fare sgattaiolare le bare da una porta secondaria». Come ha conosciuto Di Stefano? «Per caso. Nei miei primi giorni di servizio, da una vetrata socchiusa del quarto piano ho intravisto un rigoglioso giardino. Attratto da quella bellezza sono entrato e ho notato un uomo in pantaloncini che innaffiava: limoni, gelsomini, cactus, ibiscus. Pensando che fosse il giardiniere ho buttato lì qualche complimento e gli ho chiesto se potevo offrirgli un caffè. Ha detto che non ne beveva e me ne sono andato. Quando alla reception ho raccontato il fatto, mi hanno terrorizzato. A sera l’ ho rivisto. Indossava il suo impeccabile abito di lino bianco. Per rimediare alla gaffe, l’ ho salutato con un rispettoso “buonasera barone”. “Vacci piano, non ti allargare”, mi ha gelato. Anni dopo mi ha detto che aveva apprezzato la spontaneità di quel mio approccio. E siamo diventati amici. Mi chiamava perfino don Totino». Ricorda qualche episodio particolare? «Centinaia. Era di poche ed essenziali parole. Di questa sua caustica laconicità ricordo due momenti: il primo, quando allo chef che sostituiva il suo cuoco preferito Paolo Sciacca, disse perentorio “Michiluzzo, con me si sbaglia solo tre volte. Se sbagli una, te ne restano solo due”. Come dire attento a quel che fai. Il secondo riguarda Felice, che abitualmente lo serviva. Sbucciando con coltello e forchetta una delle grosse arance che Di Stefano si faceva arrivare dalle sue campagne, il cameriere aveva sprecato un bel po’ di polpa, provocando la reazione del barone: “Professionalmente sei un artista, ma praticamente mi hai sminchiato un’ arancia». A chi sono finite le immense fortune del nobile? «All’ avvocato Messina di Castelvetrano, suo figlioccio. Beato lui». A voi dell’ hotel ha lasciato qualcosa? «Nulla. Solo Giacomino, l’ inserviente che era la sua persona fidata, ha ereditato le scarpe bianco-marrò e i vestiti di lino».
Fonte: archivi storici. La Repubblica
Il Circolaccio