COS’È LA “SICILITUDINE”?
Cos’è la sicilitudine? Leonardo Sciascia cerca di spiegarlo:”Categoria metafisica, condizione esistenziale, o stato antropologico dell’essere siciliani”
Giovanni Gentile definì’ invece la Sicilia del suo tempo ” in partibus infidelis” ovvero “terra di non credenti” . Scrisse il libro: il tramonto della cultura siciliana
Gentile:”Che cos’è la cultura? Per tentare un primo orientamento possiamo dire che della cultura si possono avere due concetti: l’uno obiettivo, l’altro soggettivo. Il nostro è quest’ultimo […]. Come la verità noi la cultura la cerchiamo dentro l’uomo: diciamo anzi che la cultura è l’uomo. ” (Stato e cultura).
Un giudizio duro, schietto. Gentile non fu neanche tenero con i castelvetranesi che bacchetto’ come : ” un popolo dormiente e incapace di reagire nonostante le condizioni critiche ” . Erano i primi anni del 900. Giovanni Gentile grande intellettuale ebbe toni sprezzanti verso i siciliani. Infatti , dopo la docenza a Palermo si trasferi’ a Roma
Anche sulla base di questo itinerario è possibile ricostruire, almeno a grandi linee, un percorso nella interpretazione che Gentile dà della cultura e del suo significato non solo come strumento di formazione, ma anche come elemento fondamentale e caratterizzante l’essere umano e la sua realtà. Tra cultura popolare, tradizione, folklore È l’autunno del 1895 quando a Castelvetrano, viene stampato il primo numero di una pubblicazione che dovrà avere una parte non marginale, seppur minima dal punto di vista della durata temporale, nel percorso culturale del giovane studente alla Normale di Pisa: si tratta di “Helios”, rivista d’arte, lettere e varietà, con la quale Gentile comincia a collaborare fin dai primi numeri fornendo articoli e contributi che sono importanti ed utili al fine di tracciare alcune linee guida nella formazione del suo concetto di cultura. Intanto la propensione del filosofo per una cultura che sia caratterizzata da “lunghe e pazienti ricerche, fatte con vero disinteresse e per solo vantaggio della storia”. Helios” è per Gentile l’occasione per un primo, ufficiale confronto-scontro con la pubblicistica del tempo, ma anche occasione di formazione per lo studioso che è tra i suoi più assidui collaboratori con ampi articoli firmati o con dense notizie bibliografiche, siglate o anonime: cercando di mettere la cultura locale in contatto con quella nazionale, propone le tematiche dibattute nell’ambiente universitario e valorizza quegli studi folklorici che, unici, avevano permesso alla Sicilia di superare i limiti regionali della sua cultura. Sono interventi “minori” — negli stessi anni egli pubblica il lavoro su Rosmini e Gioberti e gli studi su Marx –, ma hanno il pregio di essere affidati, nel periodo tormentato della crisi di fine secolo, alle pagine di una Rivista non accademica in cui la vena critica e pedagogica di Gentile è più libera di esprimersi.
Il pensiero di Sciascia
Comunque la si voglia intendere, la Sicilia fa pensare a un ghetto, a una prigione-dorata, quanto si vuole-ma pur sempre una gabbia di separatezza e di esclusione.
Di sicuro Sciascia, siciliano di mare aperto con forti radici nella sua terra, e diviso da un tormentoso odi et amo nei confronti di essa, non intendeva, parlando di sicilitudine, relegare i siciliani in una ‘monade senza porte e senza finestre’. Tutt’altro: il Maestro di Regalpetra parla di Sicilia come metafora del mondo.
Spesso però il termine in questione viene utilizzato per rivendicare nel bene e nel male una specificità, anche se non localistica, della letteratura siciliana e della cultura isolana in senso lato, quasi un’appartenenza che, se non separa, isola.
Si può essere intellettuali, scrittori, pensatori, poeti, artisti, di respiro sovranazionale, come lo sono stati e lo sono i nostri – Pirandello, Verga, Sciascia, Borgese, Vittorini, Lampedusa, Bonaviri, Quasimodo. Lucio Piccolo. E Brancati, Bufalino, Consolo, D’Arrigo, Sgalambro, l’erede lentinese di una tradizione di pensiero che risale a Gorgia e ai sofisti- senza cessare di essere siciliani?
L’identità siciliana è un’identità insulare, ma di un’isola senza giurisdizione e confini definibili. Identità di mare aperto, e di terra: aspra, dura, severa, eppure accogliente, ospitale.
Di duplice polarità e di contrasti: di luci e di tenebre, di comico e tragico, di canto e disincanto, di poetica visionarietà e di freddo impoetico raziocinare. Di miti ancestrali, di memorie oscure che affondano nella notte dei tempi, e di luoghi e topoi di luminosa grecità.
Una terra dove anche la natura sprofonda nel mito, e il mito convive con la storia e la memoria, come nel Caos delle origini.
“Soffre la Sicilia di un eccesso di identità, né so, se sia un bene, o se sia un male. Certo per chi c’è nato dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non saper districare tra mille curve e intrecci del sangue il filo del proprio destino” ( Gesualdo Bufalino).
Da qui un fatalismo pagano, greco, non provvidenzialistico, che malconvive con un senso della morte come “sopercheria”e “scandalo” E per contro una confidenza, una familiarità con la morte quasi scaramantiche, un coabitare e trafficare coi morti in singolare promiscuità, feconda di visioni, sogni, ubbie
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”[…] “Non nego che alcuni siciliani trasportati fuori dall’isola, possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è gia tardi; la crosta è già fatta”.
Checché se ne voglia dire del celebre discorso di Don Fabrizio al senatore Chevalley- e tanto si è detto pro e contro- resta il fatto che non ci vuole molto a riconoscersi in questo identikit di idealità astratta, inconcludente, parolaia e selvatica. Una forma di accidia, di oblomovismo, che potrebbe essere il risvolto di un iperattivismo introspettivo, di una esuberanza della fantasia incontenibile, sì da generare ingorghi e blocchi dell’agire.
Una sicilitudine che costituisce un tratto distintivo dei siciliani, e però si pone come metafora di una condizione esistenziale di universale valenza. Non habitus antroplogico, ma figura di simbolo, di letteratura.
Non a caso la letteratura del novecento deve molto, anzi moltissimo alla sicilitudine come rappresentazione e commedia umana.
Non a caso in questa mitica terra è nato Giuseppe Bonaviri, la sua scrittura, la sua poesia intrisa di tutti gli umori, i sapori, i profumi, la fisicità dei suoi luoghi, eppure così eterea, immateriale, così originaria e universale.
Anna Vasta · in Patria Letteratura, Quaderni di letteratura