Falcone e Borsellino scoprono la Gladio e i suoi rapporti con la mafia
Il rapporto dei R.O.S. sulle inchieste dei due giudici firmò le stragi?
Gladio rimase un’organizzazione segreta dal 1956 al 1990 quando nel corso di tutt’altra indagine il ritrovamento di alcuni documenti spinse l’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti a rivelarne pubblicamente l’esistenza. Furono resi noti i 622 nomi dei
gladiatori, l’avvocatura di Stato proclamò Gladio “un’istituzione creata e disciplinata dalla pubblica autorità” e l’allora Presidente Cossiga ne riconobbe pubblicamente la legittimità vantandone addirittura la paternità. Ma non fu sufficiente per gettare luce sulle moltissime zone d’ombra rimaste. In realtà fu sollevato più di un sospetto circa la
partecipazione di Gladio al progetto di terrore e stragismo che mantenne costante l’instabilità dell’Italia.Diverse inchieste, anche giornalistiche, hanno messo in evidenza diversi contatti tra i boss mafiosi ed esponenti di Gladio e pezzi dei servizi deviati. In queste strane relazioni mise le mani anche la massoneria “deviata”. Su questi contatti si è indagato poco. Molti nodi non sono stati sciolti nei vari processi
Inchiesta “Il Format”
Prima di scrivere e far capire del perché era importante delegittimare il collaboratore di giustizia Angelo Siino, dobbiamo fare alcune importanti premesse che durante la nostra lunga inchiesta, non solo ci hanno fatto riflettere sulla veridicità (in quanto siamo rimasti increduli), ma ci hanno fatto capire del perché in tanti hanno avuto paura parlarne.
A scrivere e ricostruire un passato “fitto di misteri e inganni” è, ancora una volta, il giudice istruttore Ferdinando Imposimato di cui ci onoriamo di trattare quanto segue.
Imposimato, sempre attento nel ruolo di investigatore e magistrato, ci hanno fatto notare che sin dalle prime indagini avvenute a seguito di vari assassini, i magistrati spesso non riuscivano a collegare alcuni metodi e strumenti alla mafia ed ebbero spesso la prova di qualche entità che avrebbe occupato la scena delle varie inchieste, a loro giudizio la definirono – parallelamente ai nostri servizi – “Sid parallelo”, Supersid“, “Servizio deviato“.
Teniamo in considerazione che i magistrati dell’epoca non conoscevano (o almeno non avevano certezza per la censura di documenti segreti) l’esistenza della Gladio o Stay Behind, né che i suoi confini fossero internazionali.
A cercare di occuparsi di tale “entità segreta” fu (tra i primi) Giovanni Falcone che tramite altri magistrati che si occupano di inchieste simili (omicidi strani) in tutta Italia, tentò di accertare se nel periodo tra 1978 e il 1990 Gladio avesse interferito con i delitti di Piersanti Mattarella, di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa.
Falcone (il cui uomo di fiducia non poteva che essere Paolo Borsellino) chiese e ricevette una memoria dettagliata dei legali di Pio La Torre, quest’ultimo esponente del PCI ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, e dopo un’attentata lettura capì che questo delitto aveva concomitanze con quelli di La Torre e di Michele Reina, segretario provinciale della DC a Palermo, tanto da asserirli insieme al delitto del Gen. Dalla Chiesa, in una operazione compiuta da un’organizzazione complessa e quindi probabilmente ad opera di Gladio.
Il contenuto di tale ipotesi e i collegamenti, Falcone li scrisse anche sulla sua agenda elettronica lasciata a Liliana Milella giornalista del «Sole 24 Ore».
La prima testimonianza diretta che ricevette Giovanni Falcone, la ebbe dal neofascista Pierluigi Concutelli che gli avrebbe confessato che il presidente della Regione Sicilia era stato ucciso dai neri, inoltre Concutelli gli parlò dei legami e degli intrecci tra malavita, eversione nera e servizi segreti targati P2 nonché degli scambi di favore garantiti da quella cosiddetta «agenzia del crimine» nota come banda della Magliana (definizione che le diede l’alto commissario antimafia Sica). Falcone, capì che avendo Fioravanti avrebbe avuto contatti non solo con gli ambienti neofascisti siciliani ma anche con elementi mafiosi, delineò una trama in cui convivevano il movente politico-mafioso e la presenza di forze oscure che miravano a colpire l’apertura politica del Presidente siciliano Piersanti Mattarella verso i comunisti.
A questo punto è importante sottolineare il ruolo di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito del famoso “papello”, che confermò questa diagnosi e disse che il padre aveva saputo dal «signor Franco» (uomo dei servizi segreti) che i killer di Piersanti Mattarella non erano mafiosi siciliani, ma presi dalla manovalanza romana: un po’ delinquenti, un po’ terroristi neri o rossi.
Sempre Massimo Ciancimino ha dichiarato che il padre vedendo la strana anomalia per le caratteristiche di Cosa Nostra, chiese al famoso ingegner Lo Verde – ovvero alias Bernardo Provenzano – il perché avessero rivelato, con un omicidio così eclatante e feroce, la forte presenza della mafia. Provenzano rispose che si era trattato di uno scambio di favori tra Cosa Nostra e Servizi.
Anche il misterioso signor Franco confermò la versione dello scambio di favori per l’omicidio Mattarella, dopo aver cercato riscontri negli ambienti delle forze dell’ordine. E anche quelli gli avrebbero confermato il coinvolgimento dei Servizi Segreti.
In un articolo dal titolo: “Lo zampino di Sindona” pubblicato su Panorama del 19 maggio 1980, a firma di Chiara Valentini, si leggeva addirittura che l’assassinio di Piersanti Mattarella era stato commesso dai terroristi non in proprio, bensì in quanto emissari di un clan siculo-americano collegato a Michele Sindona. La Valentini rivelò che la fonte delle sue informazioni era lo stesso Pio la Torre e aggiunse che la matrice dell’omicidio di quest’ultimo andasse ricercata nell’ ambito della vicenda Gladio.
Lo zampino di Sindona
Nell’aprile del 1993, dalla Commissione antimafia, Angelo Izzo terrorista di destra e autore del massacro del Circeo, dichiarò nella sua escussione quanto segue:
“Qualche mese dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella era stato proprio Bontade a commissionare l’omicidio Mattarella ai “camerati””, aggiungendo “questo capomafia era autorizzato a tenere riunioni massoniche nella sua villa bunker nel fondo Magliocco”.
Imposimato, presente nella “Commissione antimafia del 1993”, scrisse:
“Nonostante le prove e gli indizi contrari, il 12 aprile 1995 la Corte di Assise di Palermo accolse la tesi dell’esclusiva pista mafiosa, condannando all’ergastolo Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò e Francesco Madonia. Assolse invece Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, inizialmente accusati di essere stati gli esecutori materiali dello stesso delitto.
A discapito di quella falconiana, era invece passata la linea del procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, del parere di seguire l’esclusiva responsabilità di Cosa Nostra. La Corte respinse la pista Gladio che era ben compatibile con la partecipazione di Valerio Fioravanti. La sentenza che ne derivò provocò la reazione di quelli che credevano nella responsabilità di Giusva, accusato da Angelo Izzo e persino dal fratello Cristiano e dal padre”.
Aggiunge nei suoi scritti il G.I.:
“E inutilmente la vedova Mattarella, Irma Chiazzese, criticò la decisione di accantonare la pista sullo scambio di favori tra mafiosi e terroristi neri. La donna si dolse profondamente della decisione dei magistrati della procura di Palermo di ignorare la sua testimonianza diretta sulla persona che aveva ucciso il marito, assolvendo Fioravanti. Era infatti certa di averlo riconosciuto nell’assassino “dagli occhi di ghiaccio” che aveva visto”.
Continuando Imposimato scrive:
“Dello stesso accento critico verso la Procura di Palermo era stato il giudizio di Giuseppina Zacco, vedova di La Torre, che ammonì: “Questa sentenza non ci rende giustizia e non fa verità […]. I rapporti tra mafia, P2, massoneria deviata, grande finanza, apparati dello Stato e dei servizi segreti, Gladio, sono emersi tra le carte, eppure non sono stati valorizzati nel processo”.
Ci sembra normale, dopo quanto premesso, che in Italia gli intrecci per “le poltrone politiche e i soldi” siano stati sempre di casa e che gli “infami” dovessero sempre essere delegittimati o uccisi!
Abbiamo così ritrovato il famoso “Giammanco” dalle archiviazioni veloci e sempre contro le prove – pronto a condannare solo i mafiosi e mai i “massoni”.
Angelo Siino , (il “Ministro dei Lavori pubblici” di Riina, amico di Matteo Messina Denaro, grande manipolatore degli appalti Saiseb di Castelvetrano) , per ragioni familiari inizia i suoi contatti con personaggi di rilievo di Cosa Nostra. Contatti che risalgono dai tempi della sua gioventù, in quanto lo zio della madre, Celesti Salvatore, fratello del nonno materno Celesti Giuseppe morto nel 1921, era rappresentante della “famiglia” mafiosa di San Cipirrello e non avendo figli era stato molto vicino a loro.
Lo zio, che era stato condannato all’ergastolo e liberato nel 1943 dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, godeva di grande prestigio presso i vertici di Cosa Nostra e Siino aveva frequentato con lui gli esponenti di maggior rilievo dell’organizzazione fino alla fine degli anni Settanta, allorché il familiare era deceduto.
Benché da giovane ne avesse fatto richiesta allo zio, questi gli aveva sempre sconsigliato l’affiliazione a Cosa Nostra, sia perché le sue agiate condizioni economiche lo avrebbero esposto a delle richieste di denaro alle quali egli non avrebbe potuto sottrarsi per ragioni di solidarietà, sia perché egli non voleva che il nipote andasse incontro alle molte vicissitudini
giudiziarie che, anche dopo il 1943, avevano contrassegnato la sua vita.
Peraltro, nonostante la sua mancata affiliazione, quella parentela gli aveva consentito contatti assai stretti con i consociati di Cosa Nostra che lo trattavano come uno di loro, anzi aveva potuto fruire di una maggiore autonomia, non essendo tenuto al rispetto dei vincoli gerarchici per accedere agli incontri con i maggiori esponenti di quel sodalizio mafioso.
Siino , quando lo zio era rimasto in vita, non era stato mai direttamente coinvolto in attività mafiose, limitandosi a frequentare vari personaggi di Cosa Nostra – Siino con il proprio linguaggio arguto si è definito un “damo di compagnia”- tra cui Bontade Stefano, del quale aveva guidato più volte le auto, essendo un abile pilota ed un appassionato di veicoli sportivi e da corsa.
Tra il 1979 ed il 1984 dovette allontanarsi da Palermo su “consiglio” di Bontade, in quanto era stato accusato di aver importunato la moglie di un ufficiale medico e questo avrebbe potuto costargli la vita.
Aveva vissuto a Catania, dove aveva frequentato locali di personaggi di spicco di Cosa Nostra, offrendo ospitalità presso le sue aziende ad alcuni di loro, anche latitanti, di cui fu esposto a subire vari controlli da parte delle Forze dell’Ordine, inducendolo a far definitivamente rientro a Palermo nel 1984. Da allora era entrato nell’orbita della “famiglia” mafiosa di San Giuseppe Iato diretta da Brusca Bernardo.
Ricordate bene quanto sopra descritto, perché nel corso di diversi interrogatori – non si sa il perché – verrà quasi delegittimato da quanto sopra esposto!!!
Siino era stato titolare di alcune imprese che si occupavano di lavori edili oltre alle aziende agricole. Conosceva il settore dei pubblici appalti ai quali aveva avuto accesso sin dagli anni settanta, il quale era stato in società anche con i fratelli Buscemi Salvatore ed Antonino, oltre ad ALFANO e CASTAGNA.
Dal 1986 l’Onorevole LIMA – che conosceva da giovane, quando questi dirigeva l’Ente di Sviluppo Agricolo (E.S.A.) – lo aveva incaricato a gestire per conto dei politici il settore degli appalti pubblici e, subito dopo, DI MAGGIO che sostituiva BRUSCA Bernardo all’epoca detenuto, gli aveva conferito analogo incarico per conto di Cosa Nostra. Dapprima limitatamente alla Provincia di Palermo, successivamente – avendo offerto buona prova delle sue capacità – RIINA lo aveva autorizzato a gestire tale settore nelle altre province, accreditandolo presso i rappresentanti di Trapani, Caltanissetta, Agrigento e Catania, cioè rispettivamente a: MESSINA DENARO Francesco, MADONIA Giuseppe, DI CARO Giuseppe e SANTAPAOLA Benedetto, i quali potevano direttamente rivolgersi a lui per gli appalti di pertinenza dei loro territori.
Al riguardo il SIINO ha spiegato che il primo appalto di cui si era occupato, anche per conto di COSA NOSTRA, era stato quello di cui era committente la Provincia Regionale di Palermo per la realizzazione del tratto stradale San Mauro Castelverde – Gangi tra la fine del 1986 ed il 1987.
In base all’incarico ricevuto dal LIMA si era convenuto che l’appalto sarebbe stato aggiudicato all’impresa di FARINELLA Cataldo di Ganci, cioè a coloro che avevano il controllo mafioso di quel mandamento. Era però stato avvicinato da BUSCEMI Antonino e dall’ingegnere BINI, i quali dopo essersi congratulati con lui per l’incarico ricevuto gli avevano detto che l’appalto doveva essere assegnato all’impresa CISA del gruppo FERRUZZI, per conto del BINI il quale svolgeva il ruolo di amministratore.
Il SIINO aveva rappresentato gli impegni già presi e questo aveva provocato le ire del
BUSCEMI, che gli aveva detto che lui era “il padrone delle Madonie” e che, quindi, lui non poteva permettersi di opporgli un rifiuto. Del fatto aveva parlato anche con LIMA – che gli aveva fatto intendere di aver ricevuto anche lui pressioni in tal senso e che gli aveva lasciato la responsabilità decisionale – nonché con DI MAGGIO, che gli aveva consigliato di contattare i FARINELLA. Aveva, quindi, parlato con FARINELLA Giuseppe capomandamento di San Mauro, che si mostrò conciliante, in questo senso arrivarono ad un accordo in virtù del quale il 60% dei lavori fu assegnato alla CISA ed il 40% all’impresa di FARINELLA Cataldo.
Quell’appalto era stato il più rilevante tra quelli fino ad allora assegnati dall’Ente Provincia e, quindi, aveva risvegliato un diretto interesse di COSA NOSTRA, che fino ad allora si era, invece, limitata a pretendere una tangente sugli importi dei lavori assegnati a carico dell’imprenditore che si aggiudicava l’appalto e a favore del gruppo mafioso che controllava quel territorio, salvo intervenire saltuariamente a favore di qualche gruppo imprenditoriale più vicino, come quelli dei costruttori COSTANZO e GRACI.
Da allora , LIMA, lo aveva incaricato di fare da intermediario con COSA NOSTRA per la gestione degli appalti.
Salvo Lima
Sostanzialmente il suo incarico era stato quello di intervenire già nella fase di aggiudicazione degli appalti, pilotando l’assegnazione dei lavori in favore di determinate imprese secondo una turnazione, che ovviamente teneva conto sia dell’interesse che COSA NOSTRA poteva avere in alcune imprese o a volte anche dell’interesse che poteva avere qualche esponente politico, sia dell’importo dei lavori e delle dimensioni delle imprese stesse.
Quando il sistema di aggiudicazione era quello della licitazione privata, segnalava le imprese da invitare e comunque interveniva presso i partecipanti per concordare le offerte che sarebbero state presentate per essere così certo dell’esito finale.
In generale tale sistema incontrava la disponibilità della maggior parte degli imprenditori, che potevano programmare i loro impegni sulla base dei turni a loro assegnati da SIINO, mentre nei pochi casi in cui non si era riusciti a persuadere qualcuno sull’offerta da presentare, si era intervenuto sottraendo alcuni certificati che erano necessari per la partecipazione alla gara oppure truccando le offerte.
Compito di SIINO era anche quello di riscuotere le tangenti dovute dagli imprenditori che si aggiudicavano i lavori, secondo le quote che erano pari ad una percentuale del 2,5% dell’importo dei lavori in favore dei politici e del 2% in favore di COSA NOSTRA, importi questi che di volta in volta provvedeva a consegnare per la parte spettante al sodalizio mafioso al DI MAGGIO prima e a BRUSCA Giovanni successivamente. Quando questi subentrarono nella direzione del mandamento e per la quota dei politici a LIMA, SCIANGULA Salvatore, DI STEFANO e altri.
Tra il 1988 ed il 1989 DI MAGGIO, per conto del RIINA, gli aveva imposto di limitare la sua attività di intervento nella fase di aggiudicazione degli appalti ai soli lavori indetti dalla Provincia dell’importo non superiore ai cinque miliardi di lire, lasciando quelli di entità superiore e quelli che interessavano la città di Palermo alla gestione dell’imprenditore SALAMONE Filippo di Agrigento, sotto la supervisione di BUSCEMI Antonino e di BINI.
Per quest’ultimi lavori, SIINO avrebbe comunque dovuto continuare ad occuparsi
dell’esazione delle quote spettanti a COSA NOSTRA. Di fatto SIINO aveva però continuato ad interessarsi anche degli altri lavori, allorché constatava che non erano seguiti né da SALAMONE né da BINI, che non possedevano le sue stesse capacità di controllo generale del sistema né volevano esporsi in modo così diretto ed ampio come aveva fatto lui.
Il passaggio sopra esposto è importante, in quanto in seguito Giovanni Brusca dichiarerà l’opposto di quanto sopra descritto…. Come mai???
Per esempio egli era intervenuto nella gestione degli appalti per la realizzazione della Pretura di Palermo e dello stadio presso il quartiere dello Zen, nonché per altri appalti indetti dall’A.M.A.T. in territorio di Passo di Rigano e dall’E.A.S..
SIINO si è detto consapevole delle ostilità che ciò gli procurava da parte del SALAMONE e di BUSCEMI, con il quale con quest’ultimo aveva più volte avuto degli accesi scontri verbali. Dato il temperamento collerico che questi possedeva, all’epoca dei fatti forte di poter contare sull’appoggio di BRUSCA Giovanni, con il quale intratteneva buoni rapporti, si rese conto solo più tardi di tale errore di calcolo e del fatto che il BRUSCA non intendeva esporsi per lui ma solo servirsene.
Comunque per i lavori nei quali era intervenuto direttamente SALAMONE, come quelli per le emergenze idriche e per i consorzi, ad eccezione di quelli che interessavano la città di Palermo, questi aveva continuato a consegnargli le quote delle tangenti spettanti a COSA NOSTRA, e poiché si trattava di importi notevoli e i calcoli non erano semplici, si era concordato il versamento, da parte di SALAMONE a SIINO, di una somma mensile di duecento milioni di lire salvo conguagli in sede di conteggi finali.
Ha aggiunto SIINO che intorno alla fine del 1988, a partire dai lavori appaltati al consorzio Basso Belice – Carboi, era stata introdotta una tangente dello 0,80% per le spese generali di COSA NOSTRA da versare in una cassa controllata dal RIINA, quota questa che non provvedeva a riscuotere lui ma che veniva, invece, consegnata a BUSCEMI e che si aggiungeva a quella del 2% sempre spettante ai gruppi mafiosi del luogo in cui si svolgevano i lavori e di cui gli importi venivano, invece, riscossi come si è detto da SIINO.
LIPARI Giuseppe, persona assai vicina a RIINA e a PROVENZANO e che pure seguiva tale settore dei pubblici appalti, intrattenendo rapporti con BUSCEMI, gli aveva spiegato che quest’ultimo e BINI dovevano essere privilegiati in questa nuova fase, rimettendogli la decisione sull’individuazione delle imprese a cui assegnare gli appalti rientranti nella gestione di SALAMONE.
Ha inoltre riferito SIINO che nel 1990, mentre si occupava della gestione di un appalto dell’E.A.S. che prevedeva l’informatizzazione della rete idrica di Piana degli Albanesi, lavori dell’importo di circa quattordici miliardi di lire che voleva aggiudicarsi in associazione con l’impresa GALAZZI, LIPARI gli aveva detto che era necessario far partecipare all’assegnazione anche l’impresa REALE, cosa che aveva dovuto accettare perché anche il BRUSCA aveva concordato su questa richiesta.
A tal proposito, ha spiegato SIINO, il vecchio titolare di quell’impresa era REALE Francesco, amico del padre e persona non più al passo con i tempi, sicché la sua impresa aveva conosciuto una grave crisi finanziaria ed era stata salvata dal fallimento per l’intervento di BUSCEMI Antonino, che ne aveva acquistato una quota. REALE era, infatti, suocero di CATALANO Agostino, imprenditore che aveva presso COSA NOSTRA anche il grosso merito di essere cognato di BUSCEMI e consuocero di CIANCIMINO Vito, a lungo personaggio politico di rilievo a Palermo soprattutto nel corso degli anni sessanta.
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Arresto di Angelo Siino
Tratto in arresto nel luglio del 1991 nell’ambito di un’indagine su “mafia ed appalti” condotta dal R.O.S. di Palermo sotto la direzione della Procura locale – Giovanni FALCONE, all’epoca ancora Procuratore aggiunto, aveva ricevuto nel febbraio dello stesso anno, alla vigilia della sua partenza per Roma, dove doveva assumere la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, il rapporto informativo dalle mani del Capitano DE DONNO, rapporto poi consegnato al Procuratore GIAMMANCO – SIINO riportò in primo grado la condanna a nove anni di reclusione per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa finalizzata alla gestione dei pubblici appalti ed altri reati in materia di Pubblica amministrazione, condanna ridotta ad otto anni nel giudizio di appello.
Scarcerato nel giugno del 1997, venne nuovamente arrestato il 10 luglio di quell’anno in relazione agli illeciti collegati all’appalto dei lavori per la Pretura di Palermo, chiamato in causa dai collaboranti LANZALACO Salvatore e CRISAFULLI.
Da quel momento SIINO iniziò a collaborare con l’A.G., spiegando la sua scelta sia con l’intento di sottrarre se stesso ed i suoi familiari alle angherie dell’organizzazione mafiosa che lo costringeva a chiarire le accuse che gli venivano mosse.
Sotto il primo profilo, SIINO ha riferito che nel breve periodo di circa un mese in cui era stato libero nel corso del 1997 era stato assalito da una serie di richieste di pagamento di ingenti somme di denaro per lavori pubblici che le sue imprese si erano aggiudicate da parte di VITALE Vito, persona che doveva la sua recente importanza in COSA NOSTRA a BRUSCA Giovanni, nonché da parte di DI MAGGIO e di alcuni gruppi catanesi. Gli chiedevano, inoltre, di tornare ad occuparsi dei pubblici appalti, ricacciandosi in un tunnel che a quel punto, data l’attenzione degli investigatori nei suoi confronti, sarebbe stato per lui senza alcuna via di uscita.
Sotto il secondo profilo il collaborante ha asserito che pendevano sul suo capo accuse che non tenevano conto del suo reale ruolo di gestore e rapporti tra politici ed imprenditori per conto di COSA NOSTRA, nonché dei limiti dello stesso, trascurando i livelli più alti che erano stati gestiti da altri personaggi.
Nel corso della sua collaborazione SIINO è stato anche in grado di riferire in ordine ai rapporti tra COSA NOSTRA ed esponenti politici in occasione delle competizioni elettorali, dichiarando tra l’altro che in occasione delle elezioni politiche del 1987, circa due – tre mesi prima delle medesime, aveva avuto un incontro con l’Onorevole MARTELLI che si presentava candidato in Sicilia, in vista di un sostegno elettorale e che da parte di BRUSCA Emanuele, fratello di Giovanni, gli era stato detto chiaramente che occorreva impegnarsi a favore del Partito Socialista Italiano, che effettivamente riportò nella circoscrizione di Palermo un successo senza precedenti e non più ripetuto successivamente, essendo stati eletti una quartina di candidati rappresentati dallo stesso MARTELLI: REINA, FIORINO e ALAGNA.
Al riguardo si rileva che risulta effettivamente accertato dalla documentazione trasmessa dal Ministero dell’Interno – Direzione Centrale per i servizi elettorali che nelle elezioni della Camera dei Deputati del giugno 1987, nell’ambito della XXIX circoscrizione di Palermo – Trapani – Agrigento, il P.S.I. conseguì quattro seggi e risultarono eletti MARTELLI Claudio con 116.984 voti, REINA Giuseppe con 64.242, FIORINO Filippo con 62.065, ALAGNA Egidio con 57.910.
Tale risultato non solo era di gran lunga superiore a quello delle precedenti elezioni, ma non fu neanche ripetuto nelle successive competizioni politiche dell’aprile 1992, allorché il P.S.I. conseguì tre seggi ed il primo degli eletti, REINA Giuseppe, riportò 32.594 voti, in numero, quindi, notevolmente inferiore a quello del quarto degli eletti di cinque anni prima e persino al sesto dei votati non eletti nel 1987.
Brusca dichiarerà in seguito che Siino non era a conoscenza dei rapporti tra Cosa Nostra e Politica e neanche conosceva i membri della commissione…può essere?
Nel presente processo il contributo SIINO, adeguato alla posizione dallo stesso rivestita e che ha trovato per ampie parti significativi riscontri nelle dichiarazioni di altri collaboranti, è apparso rilevante per la ricostruzione dei rapporti del sodalizio mafioso con settori del mondo politico ed imprenditoriale, tematiche queste la cui analisi deve essere effettuata in relazione alla ricerca dei moventi della strage per cui è a processo e della più ampia strategia criminale si è inserito.
Borsellino, Di Pietro, R.O.S. e Tangentopoli
Nell’ambito di questo secondo filone di indagini varie deposizioni dimostrano che BORSELLINO aveva mostrato particolare interesse dopo la morte di FALCONE alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di COSA NOSTRA nel settore degli appalti, e non solo perché lo riteneva di fondamentale importanza per quella organizzazione ma anche perché convinto che potesse scoprire una delle principali ragioni della strage di Capaci.
Nel proposito preme ricordare le testimonianze di vari colleghi del magistrato dell’epoca, tra cui anche Antonio DI PIETRO, nonché del Generale MORI e del Capitano DE DONNO.
Il senatore DI PIETRO ha ricordato che BORSELLINO anche in occasione dei funerali di FALCONE gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di COSA NOSTRA nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha riferito il teste che, mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito delle tangenti, questo non si era verificato in Sicilia e BORSELLINO spiegava la diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo su due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto COSA NOSTRA interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà degli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti a loro assegnati nel resto d’Italia.
L’intenzione di BORSELLINO e di DI PIETRO era quella di sviluppare di comune intesa, delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite per ottenere, anche in Sicilia, i risultati conseguiti altrove.
BORSELLINO stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi MORI e DE DONNO, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con BORSELLINO il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei
Carabinieri Carini di Palermo.
Il magistrato infatti aveva chiesto un incontro in sede diversa dall’Ufficio giudiziario, perché voleva mantenere sul medesimo il massimo riserbo – ad ulteriore dimostrazione della situazione di disagio e tensione che già caratterizzava i suoi rapporti con il Procuratore GIAMMANCO – e in quell’occasione aveva proposto la costituzione presso il R.O.S. dei Carabinieri di un gruppo coordinato da DE DONNO che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia ed appalti, riferendo direttamente ed esclusivamente a BORSELLINO.
In quell’incontro non si era andati oltre la formulazione generale della proposta, essendo stata rinviata la definizione concreta dei particolari ad un momento successivo al rientro del magistrato dalla Germania, dove doveva recarsi per ragioni professionali.
Quello era però stato l’ultimo incontro dei testi con BORSELLINO.
Occorre evidenziare che il magistrato, non potendosi direttamente occupare per ragioni di competenza della strage di Capaci, perseguiva l’intento di incidere su uno degli snodi cruciali del sistema su cui si fondava il potere di COSA NOSTRA nella speranza di indebolirla definitivamente e di impedirgli, così, di raggiungere gli obiettivi che si era prefissata con la strategia iniziata con l’omicidio LIMA e proseguita con l’attentato a FALCONE.
E la scelta da parte di BORSELLINO e degli investigatori a cui affidare l’inchiesta che maggiormente gli stava a cuore in quel momento non era casuale, poiché DE DONNO era l’autore delle indagini del R.O.S. che avevano portato alla stesura del rapporto su mafia ed appalti consegnato, come si è detto, a FALCONE nel febbraio del 1991, alla vigilia della sua partenza per Roma.
Falcone – Borsellino
DE DONNO ha spiegato come quel rapporto costituiva solo la premessa di una serie di indagini su quel tema, in quanto individ uava l’obiettivo da perseguire, cioè l’accertamento dell’intervento di COSA NOSTRA nella gestione degli appalti pubblici in Sicilia, nonché uno dei personaggi maggiormente coinvolti in tale sistema, cioè SIINO.
Pertanto i limiti di quel rapporto sottolineato da SIINO durante la sua collaborazione, erano ben presenti agli investigatori, anche se non conoscevano ancora gli altri personaggi coinvolti nel sistema e le loro aspettative erano proprio quelle di poter proseguire le indagini fino alla loro individuazione.
Al riguardo DE DONNO ha manifestato l’insoddisfazione non solo per il ritardo con cui il Procuratore GIAMMANCO, che tenne chiuso nella sua cassaforte il rapporto consegnatogli da FALCONE, consentì ai magistrati del suo Ufficio di conoscerlo e, quindi, di poter adottare le opportune iniziative giudiziarie, ma anche per la scarsa considerazione mostrata a suo avviso dalla Procura per le prospettive di un approfondimento delle indagini, che non si era verificato.
Particolarmente gradito doveva risultare a DE DONNO il proposito di BORSELLINO di valorizzare le sue conoscenze per far compiere all’indagine quel salto di qualità che fino ad allora non c’era stato, proponendosi quale referente del costituendo gruppo investigativo.
Le precise indicazioni a riguardo provenienti dalle dichiarazioni di BRUSCA e SIINO, hanno confermato che ancora una volta l’acume investigativo di BORSELLINO aveva colto nel segno intuendo ben oltre di quanto ancora era emerso dal primo rapporto del R.OS.. Quanto fosse strategico per COSA NOSTRA il suo coinvolgimento nella gestione degli appalti.
Il BRUSCA, confermando le circostanze indicate da SIINO e di cui si è già detto nella Parte prima con riferimento alla presentazione di quest’ultimo collaborante, ha dichiarato quanto segue:
“Salvatore Riina sponsorizzava l’impresa Reale, “Fai finta che e’ la mia”, era l’anello di congiunzione che doveva andare a fare …con i politici.
Cioe’, dovevamo… scalzare il Filippo Salamone, imprenditore di Agrigento, che era in quel momento il politico piu’… cioe’, l’imprenditore piu’ attaccato ai politici, che gestiva tutta la Sicilia, quindi si doveva andare a scalzare questo… questo… questo gruppo imprenditoriale per farci entrare l’impresa Reale, che era un’impresa morta, che tutto in una volta spunta. E io inizialmente non capivo perche’ Salvatore Riina, perche’ Salvatore Riina non (c’e’ andato)… non gli e’ interessato mai l’appalto, non si e’ interessato mai di appalti, ma la sponsorizzava come se fosse sua. Pero’ poi, da ragionamenti miei con Pino Lipari, questa doveva funzionare da collettore con i politici e siamo nel ’91 – fine ’91, a questo periodo.
L’impresa Reale e’ rappresentata da Benni D’Agostino, Reale e… (da) Agostino Catalano. Vedete chi e’ Agostino Catalano e tirate le somme, pero’ queste sono mie…
Brusca in seguito, a proposito di Siino, dichiarerà al p.m. Nino Di Matteo quanto segue:
“Lui si interessava di questi lavoretti cosi’, piccoli, marginali, faceva da collettore… cioe’, da collettore tra “Cosa Nostra” e imprenditori, cioe’ per la tangente, non per la… quelli politici, ma per la tangente, cioe’ per la messa a posto. Pero’, a un certo livello, Angelo Siino veniva scalzato. Gli avevo fatto prendere una soddisfazione quando gesti’ i primi quattro lavori della “Sirap” e poi gli altri li doveva mettere a disposizione del tavolino, che poi… che era, la “Sirap” era una cosa che avevo in… no inventato, cioe’ che ero venuto a conoscenza e lo… la portai avanti io. Dopodiche’ Angelo Siino si doveva mettere di lato, si doveva interessare solo di un certo tipo di lavoro. Quando Angelo Siino viene arrestato, io… prima di fare questo, cioe’ sempre avendo in mente ad Angelo Siino, se io davo ascolto ad Angelo Siino, io dovevo fare una guerra al giorno. Lui aveva contrasti con Nino Buscemi, aveva contrasti con tutti e allora io cercavo di… di ridimensionarlo sempre come meglio potevo. Quando poi… poi fu lui fu arrestato e siccome per motivi di appalti e problemi c’erano sempre discussioni, ho preferito cominciare a non interessarmi piu’, non volevo piu’ sapere degli appalti e cominciai a mollare… a mollare tutto.
Poi e’ successo che nel frattempo arriva la sentenza della Cassazione, nel frattempo ci sono stati gli eventi: l’omicidio Lima, tutto quello che e’ successo, di questo fatto io non ne so piu’ niente, cioe’ non seguo piu’ questo passo perche’ non mi interessa piu’, non ne voglio sapere piu’ niente. Tanto e’ vero che io mi comincio a scaricare di tutto, perche’ dopo l’arresto di Angelo Siino la tangente dell’”Impresem” la continuo a prendere io tramite Carmelo Milioto; poi Carmelo Milioto lo faccio spostare pure, che era un amico mio e di Angelo Siino e lo faccio mettere a contatto con Antonino Di Caro direttamente e quindi mi comincio ad alleggerire di questa posizione.
E che poi, nel ’92, quando succede l’omicidio del dottor… la strage del dottore Falcone prima, perche’ quelli che avevano interessi (?), a quella di Borsellino poi, per me il quadro ce l’ho chiaro. Cioe’, l’impresa Reale a mio avviso era l’impresa infiltrata, fra virgolette, che doveva funzionare… cioe’, dovevano andare a prendere il posto di Siino, per quello che dice il capitano De Donno in quest’aula. Per me il quadro e’ questo, poi fate voi, io non… queste sono mie solo deduzioni, per carita’ di Dio”.
Bene, siamo arrivati al momento più importante, finalmente salta fuori la “SIRAP”, ma affronteremo nel prossimo il resto dell’importanza dell’«informativa Caronte».
Fonte: Il Format M. Inturri