Strano, molto strano che lo Stato italiano, quando si trova in serie difficoltà pensi sempre a liberare mafiosi al 41 bis e con condanne severe.
“I boss fanno stragi e noi gli togliamo il 41-bis”: cosa dicono i verbali segreti dei summit al Viminale del 1993 pubblicati da Repubblica nel 2014?
Falcone , Borsellino e tutti i poliziotti delle scorte trucidati e a Roma, nel 93, si discuteva di liberare i boss dal 41 bis. Oggi il paese è in ginocchio per il coronavirus e si parla sempre del 41 bis. Argomenti che fanno sempre tanta puzza di falsità. Anche nel 93, sono state dette tante falsità.
La ragion di Stato e la mafia
Conso: “Nel ’93 non rinnovai il 41 bis
per l’Ucciardone e evitai altre stragi”
Chi decise quella vergognosa linea politica? Conso era consapevole della scelta.Nel marzo 1993, in carica da poco più di un mese, Conso decise di non rinnovare il 41 bis (carcere duro) a 140 mafiosi
“Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi”. Lo dichiarò l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso durante l’udienza in commissione antimafia nel 2011. Conso, è stato ministro della giustizia nel governo Amato prima e in quello Ciampi poi, nel periodo drammatico prima e dopo le stragi mafiose.
AI PM PALERMITANI ARRIVO’ UNA LETTERA DEL ’93 DAI FAMILIARI DEI MAFIOSI IN REGIME DI 41 BIS ALL’ ALLORA CAPO DELLO STATO “DENUNCIANDO” LE DURE CONDIZIONI DEI BOSS: “SE LEI HA DATO ORDINE DI UCCIDERE, NOI CI TRANQUILLIZZIAMO, SE NON È COSÌ, GUARDI CHE PER NOI È SEMPRE IL MAGGIORE RESPONSABILE” – E FU COSÌ CHE IL “DURO” NICOLÒ AMATO FU RIMOSSO DAL DAP E IL 41 BIS AMMORBIDITO DAL MINISTRO CONSO…
Un documento aspro nei toni, minaccioso nelle allusioni, che il 27 luglio 1993 porterà al colpo di spugna del governo di centrosinistra nella persona del ministro Giovanni Conso: niente più carcere duro per 334 detenuti, inclusi cinque esponenti di vertice di Cosa nostra. Altro che Ciancimino jr, le accuse al generale Mori, il ruolo della nascitura Forza Italia. La lettera, consegnata ai pm di Palermo dall’ex capo del Dap Sebastiano Ardita, dà una chiave di lettura plausibile all’incomprensibile decisione di revocare l’inasprimento delle regole penitenziarie attuato sull’onda della strage di via D’Amelio. La lettera, per conoscenza, fu inviata al Papa, a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze, a Sgarbi, a magistrati e giornalisti vari. «Siamo un gruppo di familiari di detenuti – l’incipit -sdegnati e amareggiati per tante disavventure, ci rivolgiamo a Lei non per chiedere chissà quale forma di carità o di concessione”
Nelle riunioni del Comitato per la sicurezza nel ’92-’93 lo scontro sulla revoca del carcere duro. Salvo Palazzolo scriveva su Repubblica
PALERMO – In un archivio del ministero dell’Interno è conservata la storia segreta degli anni più drammatici d’Italia, gli anni delle bombe di mafia. È l’archivio che custodisce i verbali dei Comitati nazionali per l’ordine e la sicurezza, il massimo organismo deputato alla protezione della Repubblica e dei suoi cittadini. Nei giorni delle stragi del 1992-1993, si riuniva spesso il Comitato, presieduto dal ministro dell’Interno, dai vertici delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. E poi lanciava solenni comunicati stampa per ribadire la linea della fermezza del governo contro i boss. Ma i verbali rimasti per vent’anni in una cassaforte della “segreteria speciale” del gabinetto del Viminale raccontano tutta un’altra storia.
Raccontano che nel 1993 un pezzo dello Stato decise all’improvviso di revocare il carcere duro al gotha di Cosa nostra. Senza un’apparente ragione, mentre le bombe continuavano ad esplodere in giro per il paese. E qualcuno protestò con forza. Anche questo scontro ai vertici delle istituzioni raccontano i verbali. Uno scontro che fino ad oggi non era mai emerso. Anzi, l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso ha sempre ripetuto che la decisione di non prorogare 300 decreti di 41 bis fu una sua “scelta personalissima “. Ma adesso i file dei Viminale dicono diversamente. E oggi Repubblica è in grado di ripercorrere questa nuova storia dopo aver letto le 456 pagine che raccolgono la cronaca dettagliata di nove comitati nazionali per la sicurezza. Questi documenti, che risultano declassificati nel 2012, sono ora agli atti al processo per la trattativa Stato-mafia.
L’allarme sul 41 bis. Bisogna iniziare dall’ultimo comitato desecretato per capire quale verità sia stata nascosta per vent’anni. È il comitato del 16 dicembre 1993. Il solerte funzionario del ministero incaricato di verbalizzare annota la presenza del ministro dell’Interno Nicola Mancino e prende nota degli interventi. Il capo della polizia Vincenzo Parisi solleva il problema dei blocchi stradali: “Dall’inizio dell’anno ce ne sono stati 192”, spiega. Il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Luigi Federici è preoccupato invece per i “centri potenziali di disordine legati al settore del lavoro”. Sembra che l’emergenza delle bombe non sia più un problema.
All’improvviso, prende la parola il procuratore nazionale antimafia Bruno Siclari e dice in modo schietto: “Preoccupa molto il pericolo degli attentati, ma preoccupa anche il regime carcerario, per il rallentamento del rigore nei confronti dei detenuti”. È un allarme preciso. Il 41 bis è stato depotenziato. E Siclari è il primo a denunciarlo. “Oltre che sensibilizzare i magistrati di sorveglianza, sarebbe opportuno anche un segnale del governo per delineare una linea più dura”.
Un’altra denuncia. Così, oggi sappiamo che in quello scorcio di fine 1993 il governo, non solo il ministro Conso, aveva modificato la sua linea antimafia. Dopo Siclari, parla il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti. Se la prende con i magistrati che “non adottano la linea dura”. Ma pure lui deve riconoscere che “questo è dovuto anche agli interventi politici motivati da esigenze di carattere generale”.Interventi politici sul 41 bis? Di chi? Non ce n’è traccia nelle pubbliche dichiarazioni di quei giorni. Chiede di parlare il vice direttore del Dap, il magistrato Francesco Di Maggio, che non usa mezzi termini. “L’articolo 41 bis crea molte preoccupazioni – dice – perché su 1232 provvedimenti ben 567 sono per delega del ministro della Giustizia e di questi soltanto 8 sopravvivono, mentre gli altri vengono revocati. I rimanenti 66 provvedimenti, invece, che non sono provvedimenti delegati, sopravvivono in numero maggiore: soltanto 26 vengono revocati dal magistrato”.
Come dire, il vero problema non sono i giudici, ma il ministero della Giustizia. Nel comitato del 10 agosto, Di Maggio era andato oltre, chiamando in causa il governo. Le sue parole sono a pagina 357 dei file del Viminale: “È opportuno che il governo mantenga ferma la sua posizione sull’articolo 41 bis”. L’anonimo verbalizzatore sottolinea la parola “governo”. E il ministro Mancino che dice? Cambia argomento.
Ammissione di sconfitta. Da quell’archivio del Viminale emerge soprattutto la debolezza dello stato in quei mesi terribili. Il 3 giugno, all’indomani della strage Falcone, il capo della polizia apre il suo intervento dicendo che mancano le auto blindate. Il 24 luglio, cinque giorni dopo l’attentato a Borsellino, ammette che “l’attività informativa non ha funzionato”. E siccome il paese protesta, propone anche di fare attività di “controinformazione”. Il capo della Dia, il generale Tavormina, suggerisce di trasferire i magistrati a rischio all’Asinara, perché in Sicilia nessuno riesce più a garantire sicurezza.Ma il capo del Dap, Nicolò Amato, avverte che i rischi sono anche sull’isola: “Non è stato rispettato l’impegno di inviare 50 poliziotti e 50 carabinieri “. Parisi risponde che sono già partiti. Amato ribatte che non sono mai arrivati. Il 30 luglio 1993, all’indomani dell’ennesimo attentato di mafia, Parisi dice: “Dobbiamo ammettere che il dispositivo di sicurezza non ha funzionato; esiste al riguardo una responsabilità collegiale”. Mentre gli analisti del Viminale brancolano nel buio. E qualcuno si vanta che “tutte le manifestazioni di reato – dagli omicidi alle rapine – sono diminuite del 21,72 per cento”.
Fonte: Repubblica: Dagospia, Il Fatto