Ha arrestato Totò Riina ed è stato a un passo dal boss mafioso Messina Denaro. Il generale Mario Mori racconta molte cose già nel 2011 . Quelle frasi rimangono nel vuoto. Non viene considerato quanto afferma.Dalla guerra tra i carabinieri del Ros e la procura di Palermo a quella cultura del sospetto tutta italiana che rende impraticabile ogni operazione segreta, in una interessante intervista del 2011, Mori dice molte cose. Dopo le dichiarazioni al processo di Marsala del 16 scorso qualche dubbio rimane anche sui tempi di queste importanti rivelazioni su cui nessuno ha messo il naso
Le dichiarazioni rilasciate al Processo su Vaccarino in corso a Marsala, sulla ormai famosa attività investigativa di Vaccarino del 2006, non sono un inedito. Già nel settembre del 2011, il Generale Mori , in una lunga intervista ripresa da Chiara Rizzo della testata “Tempi” disse , apertis verbis che, l’ex procuratore Grasso era informato dell’operazione. Sono passati 9 anni. Quella dichiarazione, evidentemente, rimase nel vuoto
Mori nel 2011: Individuammo un personaggio che poteva essere la pista giusta per giungere al latitante. Antonio Vaccarino era ex sindaco di Castelvetrano, il paese di Messina Denaro, e suo ex insegnante. Il boss si sarebbe potuto fidare. Vaccarino iniziò una corrispondenza col boss, attraverso pizzini. Di fatto glieli dettavamo noi, d’accordo con il procuratore palermitano Pietro Grasso
Grasso, tirato in ballo già nel 2011, fece qualcosa per smentire Mori? Adesso la vicenda approda in un aula di Tribunale
Nel rispetto di chi ha fatto quella intervista e con quelle dichiarazioni probabilmente disattese da chi doveva indagare, vi proponiamo il testo integrale pubblicato nel 2011.
La verità non sappiamo se verrà fuori. Di certo possiamo dire che, il boss Matteo Messina Denaro, oltre a distruggere la vita a molte persone uccidendo e devastando indirettamente , l’ha distrutta anche a tante altre persone a causa delle ” particolari” indagini sulla sua latitanza. Ci viene in mente anche l’episodio raccontato da Teresa Principato sull’operazione ordinata dal Procuratore Messineo nel 2012 e che fece saltare anni di attività investigativa. Disse allora la Principato : «È stata stoppata un’ indagine su Matteo Messina Denaro che proseguiva da circa due anni». Leo Sutera detto “il professore”, che i carabinieri del Ros seguivano da tempo dopo la sua scarcerazione, convinti che avrebbe portato presto a Messina Denaro venne arrestato dalla Procura di Palermo e tutto andò in fumo. La stessa Principato finirà sotto processo. Verrà assolta. Gli innocenti non si sbattano in carcere. Uno Stato che gioca sul sospetto e sul depistaggio non si può definire democratico.
Di seguito riproponiamo l’intervista a Mori, apparsa su Tempi n. 51 del 28 dicembre 2011 ripresa da Chiara Rizzo nel settembre 2012
Mario Mori, il generale dei carabinieri che ha fondato e diretto il Ros, quindi guidato il Sisde, il servizio segreto civile, tra il 2001 e il 2006, è nato a Postumia, nella Venezia Giulia allora italiana. Lo scrive nell’incipit della sua biografia (Ad alto rischio, Mondadori) e non a caso. Come per tutti i giuliani, l’abbandono forzato della casa natale ha forgiato il suo carattere, dandogli l’ostinazione con cui ha condotto le indagini più difficili: da quelle contro le Brigate Rosse, nel Nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, fino a quelle contro la mafia, con Giovanni Falcone.
Le origini giuliane hanno dato a Mori tanto una sobria tenacia, quanto un amore inossidabile per il proprio paese. Un amore che per il generale si è sempre tradotto in rispetto delle istituzioni, malgrado le ferite.
Mori è infatti oggi imputato a Palermo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. E mentre si sfilacciava questa prima accusa, se ne addensavano di nuove. Come quella infamante di essere stato l’anello di una presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra, in base alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Sul controverso accusatore si sono scritti libri e celebrati fior di talk show. Ma se si chiede al generale un commento, la risposta è sempre: «No. Ho fiducia nelle istituzioni e rispetto nella giustizia. Combatterò in aula. Così mi tengo vivo». Come i compatrioti, rivela una vitalità, riservata alle persone intime, che fa capolino nella battuta, nella curiosità verso l’interlocutore, nella squisita conversazione. In quest’intervista a Tempi («ma nessuna domanda sul processo a Palermo») la simpatia giuliana si rivela in un sorriso sotto i baffi, di fronte alle domande sui misteri italiani a cui ha assistito in prima persona.
Matteo Messina Denaro, il boss considerato al vertice di Cosa nostra, oggi è tra i latitanti più ricercati al mondo. Nel 2006, quando lei dirigeva il Sisde, è stato vicino alla sua cattura. Com’è andata?
Individuammo un personaggio che poteva essere la pista giusta per giungere al latitante. Antonio Vaccarino era ex sindaco di Castelvetrano, il paese di Messina Denaro, e suo ex insegnante. Il boss si sarebbe potuto fidare. Vaccarino iniziò una corrispondenza col boss, attraverso pizzini. Di fatto glieli dettavamo noi, d’accordo con il procuratore palermitano Pietro Grasso (oggi procuratore nazionale antimafia, ndr.), con cui avevamo deciso le tappe dell’inchiesta, perché i servizi non possono svolgere attività di polizia.
Presto il boss rispose, firmandosi Alessio, e chiamando il professore Svetonio: un particolare che rivela come Messina Denaro sia un uomo colto. Man mano conoscemmo, direttamente da “Alessio”, i fiancheggiatori che tutelavano la sua latitanza, e ci avvicinammo anche ai suoi principali interessi economici. La sua cultura e questa rete di rapporti sono tra i motivi per cui è imprendibile da 18 anni. Nel 2006, dopo la cattura del boss Bernardo Provenzano, vennero ritrovati vari pizzini, tra cui anche uno di Messina Denaro in cui si faceva proprio riferimento, sebbene non con il nome e cognome, a Vaccarino. Avremmo potuto usare questo elemento a nostro vantaggio. Invece successe qualcosa che non mi sono mai saputo spiegare.
Cosa?
Prima iniziò la fuga di notizie. Il nome di Vaccarino fu pubblicato dalla stampa, cosa che lo mise in pericolo e bruciò l’indagine. Messina Denaro scrisse un’ultima lettera, raggelante, a Vaccarino in cui assicurò che «la Sua illustre persona fa già parte del mio testamento». Mancò poi la fiducia della Procura di Palermo, che avviò un’inchiesta su Vaccarino. Mancò la loro fiducia in un’operazione del Sisde, perché condotta da uomini che erano appartenuti al Ros.
Ritorniamo allora alle origini delle contrapposizioni tra la procura di Palermo e il Ros. Lei è anche l’uomo che ha arrestato Totò Riina, dopo 30 anni di latitanza. Un’operazione di successo, ma in seguito, per la mancata perquisizione della casa in cui si nascondeva il boss, è nato un processo a lei e al capitano Ultimo, che arrestò materialmente il Capo dei Capi. Blindare la “scena del crimine” è la regola di qualsiasi giallo. Perché non accadde?
Eravamo giunti all’arresto scoprendo che Riina era protetto anche da due imprenditori palermitani, Gaetano e Giuseppe Sansone, a cui era intestata l’utenza telefonica della casa del boss, in via Bernini. Avevamo scelto di arrestare Riina lontano dalla casa, per non far capire ai suoi sodali che conoscevamo il nascondiglio: a quel punto eravamo in una posizione di superiorità su Cosa Nostra e volevamo sfruttarla. Ricordo che il giorno dell’arresto la caserma era piena di gente, molti anche senza alcun titolo per star lì. Ultimo, con il mio pieno sostegno, tentò di convincere i magistrati a rinviare le perquisizioni a via Bernini, per riprendere le fila di un’indagine più ampia sulla rete di fiancheggiatori del boss. Se ne avessimo parlato con più calma con il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, sono convinto che lui avrebbe capito e ci avrebbe sostenuti di più. Invece si tenne una sorta di veloce riunione plenaria davanti a tutti i magistrati. Dunque tutti sapevano che non avremmo perquisito via Bernini: ma in quella confusione scaturirono incomprensioni. E io e il capitano Ultimo siamo stati processati per favoreggiamento alla mafia. Vede, non potevamo tenere nemmeno sotto osservazione l’abitazione, perché era all’interno di un complesso di villette, recintato e in una via solitaria. Ci avrebbero notati. Al processo è stato provato che abbiamo agito in accordo con la magistratura, che alla cattura siamo arrivati non per una soffiata, ma esclusivamente per l’intuito investigativo del capitano Ultimo. E sulla perquisizione nella sentenza si legge che «fu una scelta d’eccezione . È così. Sul covo di Riina in via Bernini sono nate tante leggende. Ad esempio, si disse che nella cassaforte Riina custodisse documenti importanti. Un fatto impossibile, perché quella era l’abitazione della famiglia, e Riina non avrebbe mai nascosto lì documenti scottanti, mettendo in pericolo la vita dei figli. Si è detto che la cassaforte era stata asportata dai sodali del boss dopo l’arresto, e invece il mio avvocato provò che era rimasta sempre al suo posto. Eppure, malgrado l’assoluzione, lo stesso magistrato che sosteneva l’accusa (Antonio Ingroia, ndr), oggi continua la polemica con noi su quegli stessi fatti.
E perché tra procura di Palermo e Ros continua la “guerra” a suon di processi?
È quello che mi chiedo, ma non ho una risposta sul perché, vivaddio, in anni e anni di carriera, non ho mai avuto alcun problema con la magistratura.
Lei è arrivato a Palermo nel 1986, alla vigilia dello storico maxiprocesso contro Cosa Nostra. Cosa ricorda?
Il comando dell’Arma decise di inviare in Sicilia solo ufficiali “continentali”, per evitare condizionamenti ambientali, e il primo ricordo è lo sconforto perché non capivamo nulla del dialetto. Ma non eravamo i soli. Al maxiprocesso i giudici nominarono addirittura un esperto per le traduzioni! C’è un aneddoto che più di altri mi ha fatto capire la cultura siciliana, che ammiro, perché plurisecolare e ricca di sfumature. Durante una perquisizione in un paesino, mi imbattei in un contadino. Io ero in uniforme, lui mi fissava e io rispondevo allo sguardo. Finché lui, guardandomi con disprezzo, mi chiese: «Che vuoi, piemontese?». Ho molto riflettuto su quell’episodio. Non sono piemontese, ma per quel contadino rimanevo un “continentale”, uno dei tanti estranei che nel corso dei secoli avevano invaso la sua isola. È solo partendo dalla comprensione di questa cultura, dove il bene e il male non si distinguono mai in modo netto, che si può comprendere come attecchisce il fenomeno mafioso.
Tra le sue prime indagini in Sicilia ci fu “Mafia e appalti”. Di che si trattava?
Ho sempre pensato che bisognasse indagare sulle attività economiche della mafia, per toccarla nel vivo. Mafia e appalti tra l’89 e il ’91 ha disegnato il sistema della divisione illecita degli appalti gestito da Cosa Nostra, e che vedeva imprenditori e politici non vittime ma parti in causa. Falcone ci diede tutto il suo appoggio e la stimolò. Giovanni Brusca (autore della strage di Capaci e oggi pentito, ndr) ha raccontato al mio processo a Palermo che Falcone è stato ucciso proprio per quest’indagine. Quando Falcone fu trasferito a Roma nel ’91, la Procura di Palermo si mostrò meno entusiasta. Indagò su cinque persone tra le 44 posizioni che avevamo indicato nel dettagliato rapporto, e ai difensori di questi cinque consegnò non le prove a loro riguardo, come giustamente doveva essere, ma l’intero rapporto da 890 pagine. Tutte le nostre conoscenze erano svelate e l’indagine fu bruciata. La procura di Palermo ha poi chiesto l’archiviazione delle accuse ai cinque il 22 luglio 1992, solo tre giorni dopo la strage di via D’Amelio. E il gip firmò l’archiviazione il 14 agosto 1992.
L’inchiesta è stata alla base di una nuova indagine, svolta con successo in Campania con la camorra.
Sì, l’operazione “Avvio”. Un nostro uomo, un tenente colonnello dalla «gran faccia tosta» come venne definito, si è infiltrato tra gli imprenditori che pagavano una percentuale alla camorra sui lavori per la Tav. Guadagnò la loro fiducia al punto che camorristi e politici ci indicarono tutte le imprese a cui facevano eseguire gli appalti. Qualcuno anzi fu così gentile da segnalarci i nomi via fax. E noi ricostruimmo l’intera rete. Camorristi e imprenditori al processo sono poi stati condannati. I politici no perché, si legge nella sentenza, erano stati vittime «di un’attività di provocazione» degli investigatori. Eppure avevamo usato gli stessi metodi per gli uni e gli altri.
Una scia di vicende giudiziare coinvolge gli uomini del Ros. L’attuale comandante Giampaolo Ganzer è stato condannato a Milano, in primo grado, proprio per aver «provocato» nuove operazioni con ciò che veniva sequestrato dalle vecchie. Non è che l’ansia di ottenere sempre ottimi risultati vi ha spinti a pressare i vostri uomini nella caccia al successo?
No. I carabinieri o i poliziotti certo sono uomini, e come tali possono sbagliare, e in quel caso devono rispondere alla legge come chiunque. Quanto al modo di operare del Reparto so che abbiamo sempre agito con il fine di disarticolare la criminalità. Se non arresto il piccolo spacciatore ma lo seguo, potrò assestare, come tante volte è avvenuto, un durissimo colpo all’intera organizzazione. Perché ciò funzioni è necessario informare di ogni passo i magistrati, ma anche avere magistrati attivi, consapevoli che l’iniziativa e la sorpresa siano da privilegiare alla semplice risposta repressiva, e quindi sempre presenti nella fase operativa. Moltissimi lo hanno capito, e ci hanno appoggiati. Giovanni Falcone, Piero Vigna, Rosario Priore, Ilda Boccassini.
Insisto. Per arrivare ad un risultato anche condivisibile, come disarticolare un grande sodalizio, i vostri uomini si sono spinti a trasgredire la legge?
No. E guardi, per rimanere nell’esempio, dal 1990 la legge prevede proprio strumenti come il sequestro o l’arresto ritardato, per consentire ciò che dicevo prima. E se qualcuno ha sbagliato, ne deve rispondere personalmente.
Alla fine del suo libro, lei annota con amarezza che il comando dell’Arma dei carabinieri, «un corpo che alla base della sua efficienza ha il ferreo controllo della sua struttura, e a cui non può sfuggire il comportamento deviato», non ha mai preso posizione in difesa del Ros. Perché secondo lei?
L’ho scritto perché è una posizione condivisa da moltissimi dei miei uomini, che tante volte me lo hanno chiesto con dispiacere. Non so perché, ma escludo motivi di opportunismo. Provo amarezza per questo, ritengo che uomini che rischiano continuamente la loro vita devono avere la certezza che i loro capi ne conoscano l’attività e quando è necessario, sappiano difenderne l’onore. Così mi hanno insegnato che si comandano i reparti e gli uomini, sin dal mio ingresso nell’Arma.
Lei scrive: «Da noi si è consolidata l’abitudine di attribuire ai cosiddetti servizi deviati la responsabilità di ogni nefandezza e trama». Questo forse può estendersi più in generale alle operazioni di intelligence, nel nostro paese. In America, un agente sotto copertura come Donnie Brasko, è guardato come uno stimato professionista: perché invece da noi dietro le operazioni di successo si nasconde sempre un sospetto?
Markus Wolf, il capo della Stasi, sosteneva che ogni servizio di intelligence esprime la capacità dei suoi governanti. In Italia infatti sono specchio dell’approccio culturale della politica all’intelligence: non se ne capisce nulla. Conosco solo due persone che ne capissero bene qualcosa: uno è Francesco Cossiga, perché è sempre stato un curioso di queste cose. L’altro è Marco Minniti, ex viceministro all’Interno. E a parte loro non mi viene in mente nessun altro.