E’ uno che la verità la conosce senza che i testi la debbano confermare. Si muove con disinvoltura nel mondo della giustizia perché se la fa come gli aggrada, come meglio corrisponda alle sue convinzioni divinatorie. Sta snocciolando il suo pensiero sulla presunzione di colpevolezza, sull’inutilità dell’esame delle prove, sulla universalità del crimine e, quindi, della necessità di combatterlo senza lasciarsi sedurre dal dubbio e dalla pretesa di prove e confessioni.
Lo chiamavano a Milano. quando fece parte del “pool di Mani Pulite”, il branco delle toghe che seppellì la Prima Repubblica, “il Dottor Sottile”.
Dove sia, se non fosse (non l’ho affatto presente) nella sua silhouette, la sottigliezza di questo magistrato, proprio non lo so.
E’ vero invece che Piercamillo Davigo è un testimone tra i più attendibili che ci danno la conoscenza della vera essenza della giustizia italiana, il vero obiettivo di tantissimi magistrati. L’ideale di quel “Partito dei Magistrati” di cui io tanto mi affanno a parlare e scrivere senza trovare consensi che non siano espressi sottovoce.
Sono passati gli anni. Nessuno, credo, parli più di Davigo come del “Dottor Sottile”. La sua parola comincia a provocare un fastidioso fracasso anche tra quei magistrati che ne condividono il succo, per il quale certi assiomi si accettano, se ne segue la strada, ma non si confessa mai di condividerli.
Una volta i bambini, che nella loro ingenuità rivelavano all’esterno fatti di famiglia tenuti segreti in difesa, per lo più, di un po’ di prestigio sociale, erano definiti, con una parolaccia, in cui però trapelava un po’ di amorevole gratitudine: “smerdacase”. Almeno così a Roma e dintorni.
Ci sono anche nelle grandi famiglie, nella Casta dei Magistrati più “smerdacase” di quanti se ne possano immaginare.
Davigo ha snocciolato la “summa” del pensiero giuridico-processuale cui si attiene tanta parte della magistratura italiana: dalla presunzione di colpevolezza al fastidio per le “sottigliezze inutili” (altro che “Dottor Sottile”) delle Difese.
Ma “smerdacase” (perdonatemi questa concessione al turpiloquio piccolo borghese d’altri tempi) termine che tanto bene si attaglia ad atteggiamenti, fatti e situazioni veri e presunti ve ne sono anche di magari meno propensi a rivelare concetti e “principi” (si fa per dire).
Leggevo ieri che Antonino Di Matteo, che fu uno dei responsabili del più grave errore giudiziario con qualcosa come una diecina di ergastoli dovuti annullare in uno dei processi per l’assassinio di Borsellino, si è difeso affermando che non vi era stata alcuna macchinazione diretta a coprire delle verità e deviarne l’accertamento. Solo si era proceduto “COME E’ DI CONSUETUDINE” “alla preparazione dei pentiti” che dovevano deporre.
Per questo Di Matteo sarebbe stato “condannato a morte dalla mafia” che, magari è diventata difensore della spontaneità anche delle dichiarazioni dei pentiti.
C’è un moto di ritorno alla giustizia giusta, all’abbandonare di certi metodi?
No certamente. Non ce lo dice solo Davigo. E, magar, Di Matteo. Solo che l’uso smodato degli strumenti della giustizia ingiusta finiscono con produrre ed evidenziare le crepe del sistema. Crepe che chi vuole può vedere e prenderne atto. Non certo per farne l’abitudine e, così, in qualche modo accettare queste vergogne.
Per respingerle e condannarle.
Testi preziosi dunque i Davigo, i Di Matteo e chi sa quanti altri. (Non troppi però!!)
Sono pochi, in verità, quelli che domani potranno dire di non aver immaginato certe nefandezze.
Cari Amici, potremo anche ringraziare i testimoni. L’importante è potere ringraziare la nostra coscienza e la nostra capacità di essere coerenti con essa.
Mauro Mellini
05.02.2020