Falso pentito Scarantino, i Pm e le fantasie su chi metteva in dubbio la sua attendibilità
Non lo sapevamo, ma dopo l’uccisione di Paolo Borsellino e dopo l’arresto di Enzo Scarantino, il falso pentito esibito come trofeo aureo e portatore dell’unica verità sulla strage, era stata costituita una “sovrastruttura”, composta di politici e giornalisti incaricati direttamente da Cosa Nostra di depistare le indagini. Insieme a me, c’erano Vittorio Sgarbi e i giornalisti Lino Jannuzzi e Paolo Liguori, oltre a pochi altri. Era prezioso per i Pubblici ministeri di Caltanissetta in quei giorni Enzo Scarantino, tanto che arrivarono a mettere sotto controllo parlamentari e giornalisti. Tanto che misero nero su bianco l’ipotesi dell’esistenza di questa “sovrastruttura”, voluta da Cosa Nostra, volta a depistare i magistrati, spingendo il piccolo delinquente del quartiere della Guadagna di Palermo a ritrattare le sue accuse.
La notizia è emersa in questi giorni da vecchi fascicoli giudiziari contro ignoti che in queste settimane vengono spulciati dai magistrati di Caltanissetta, e rilanciata da “LiveSicilia”. In particolare questo organismo di “fiancheggiatori” avrebbe avuto il compito di demolire la testimonianza del collaboratore di giustizia attraverso «pressioni poste in essere da Cosa Nostra, direttamente o per il tramite di ambienti ad essa vicini, al fine di indurre Scarantino a ritrattare e di agevolare le persone da lui accusate». Si sospettava che ogni fuga di notizie, ogni informazione sulle dichiarazioni del pentito, facessero parte di un programma finalizzato a depistare e denigrare, attraverso la falsificazione delle sue parole, gli stessi organi inquirenti. Per questo motivo si tenevano d’occhio alcuni giornalisti e si indagò anche per «rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio».
Il fascicolo «contro ignoti», ma contenente una serie di nominativi tutt’altro che ignoti e “attenzionati” dagli inquirenti, venne in seguito archiviato. In calce alla richiesta, poi accolta dal giudice, le firme dei pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due magistrati indagati oggi a Messina per calunnia. Proprio loro, che oggi sono sospettati di aver contribuito a mettere in campo il più colossale depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese, In quegli anni sorvegliavano e indagavano chiunque sul piano politico o giornalistico si fosse occupato di Vincenzo Scarantino, chiunque non avesse sposato una tesi accusatoria che traballava fin dall’inizio. C’era la lettera della moglie del falso pentito che aveva raccontato delle torture cui erano sottoposti i detenuti nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Quelle torture che crearono il pentitificio. E ci sono oggi quelle 19 bobine dei confronti tra Scarantino e altri pentiti, di cui si ha notizia solo ora, da cui emergeva da subito che il falso testimone di giustizia era stato già smascherato dai primi giorni, considerato inattendibile proprio dai suoi stessi “colleghi”.
Ma la lettera del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano al collega di Palermo, Guido Lo Forte, che riferiva dei confronti tra Scarantino e i pentiti doc Cancemi, Di Matteo e La Barbera è saltata fuori solo nelle settimane scorse, consegnata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio alla Commissione antimafia siciliana. Si sono persi vent’anni perché qualcuno ha voluto perderli. E non si può dimenticare che la pm Ilda Boccassini, che si era fatta trasferire alla procura di Caltanissetta dopo la morte di Giovanni Falcone e che aveva inutilmente espresso i suoi dubbi al procuratore capo Tinebra sull’attendibilità di Scarantino, non era stata creduta ed era poi tornata a Milano.
Anche su di lei, sui suoi dubbi che il procuratore capo aveva ritenuto ininteressanti, si è chiuso un silenzio che dura da due decenni. E si dovrà arrivare fino al processo “Borsellino quater” perché un altro pentito doc, Gaspare Spatuzza, dirà semplicemente quel che qualcuno aveva capito e detto, inascoltato, vent’anni prima. Vent’ anni in cui diverse persone innocenti erano rimaste in galera. Perché gli innocenti ci vanno eccome, in carcere. Anche nei processi di mafia.
Fonte: Il Riformista