Si fa presto a dire “antimafia”, a incensare e incoronare quanti combattono – o sembra combattano –le organizzazioni criminali, i loro interessi economici, il loro potere in tutte le sue forme.
Da una parte il “Male” (la Mafia) dall’altra il “Bene” (lo Stato, l’Antimafia). Ma è così netto il confine tra il Bene e il Male?
Quello che è emerso nel corso del programma “Le Iene” in merito al “Caso Saguto” l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione di Palermo, oggi radiata definitivamente dalla magistratura a seguito dell’inchiesta sui beni confiscati alla mafia, ha offerto agli spettatori un’immagine nauseante di una certa antimafia, oggi sotto accusa alla pari di quelle organizzazioni criminali che avrebbe dovuto combattere.
Qual è la differenza tra chi, come nella vicenda che riguarda il direttore di Telejato Pino Maniaci (riferendosi al quale la Saguto nelle intercettazioni diceva “quello che non capisco è per quale ragione ancora nessuno si muove contro questo stronzo di Telejato che evidentemente se la prende con il sistema”) e le pressioni da parte della criminalità per zittire la stampa? Qual è la differenza che passa tra la criminalità organizzata che vessando gli imprenditori decreta la fine di un’azienda, e quella di un “sistema” – così lo definisce la Saguto nel corso delle intercettazioni – grazie al quale viene affidata la gestione dei beni confiscati alla mafia (ma anche a imprenditori assolti dalle accuse) a parenti, colleghi e amici che amministrano e sfruttano i sequestri a fini personali traendone profitti e favori, distruggendo le imprese e la vita di centinaia o migliaia di persone? Forse la differenza sta nel fatto che il nostro ordinamento giuridico non prevede la stessa tipologia di pena da espiare? Il Male è il male, senza alcun dubbio, ma quel Bene che oggi ci viene mostrato sotto la stessa luce, è il bene? E se le vittime del Male possono sperare nella Giustizia e in un riconoscimento del danno subito, queste vittime del Bene, che tale non è, in cosa devono sperare?
Ne abbiamo parlato con Pietro Cavallotti, che ha, purtroppo per lui, conosciuto gli effetti devastanti del “sistema Saguto”.
D: Nel 1998, a seguito dell’operazione Grande Oriente, con l’accusa che sarebbero stati vicini ai boss latitanti Bernardo Provenzano e Benedetto Spera, vennero arrestati gli imprenditori Cavallotti, ai quali l’anno successivo, per le medesime accuse, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo ordina il sequestro dei beni. Chi sono i Cavallotti?
R: I Cavallotti sono una famiglia di umili lavoratori prestati all’imprenditoria che hanno provato a migliorare le proprie condizioni di vita con il lavoro. Mio nonno, dopo avere lavorato duramente per vent’anni in galleria come minatore, decise di mettersi in proprio con i suoi figli fondando la prima azienda sul finire degli anni Settanta. Successivamente, vennero create altre imprese, tutte a conduzione familiare, attive nel settore della costruzione di infrastrutture strategiche: metanodotti, elettrodotti, acquedotti, strade, reti telefoniche. Negli anni Novanta, fummo i primi ad attuare il sistema della finanza di progetto per metanizzare decine di Comuni siciliani. Avevamo stipulato moltissime convenzioni ed eravamo sul punto di cominciare i lavori.
D: Cosa accadde dopo?
R: Nel momento della massima espansione del nostro gruppo imprenditoriale, mio padre e i miei zii furono arrestati con l’infamante accusa di associazione mafiosa. I nostri lavori furono affidati con un patto di legalità, siglato dall’allora Prefetto Profili – cioè senza alcuna gara di appalto – e con l’avallo dell’Onorevole Lumia, ad una società che li realizzò aggiudicandosi circa 200 miliardi di vecchie lire. Si trattava di fondi stanziati dalla Comunità Europea per la metanizzazione dei comuni del Sud Italia. Per una strana coincidenza i soci occulti di questa società erano Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino mentre uno dei soci formali è stato consuocero di un importante Magistrato palermitano antimafia.
D: Spieghiamo ai nostri lettori la vicenda della società di metanizzazione Gas, l’azienda che per strane coincidenze si vide assegnare i lavori dei Cavallotti. La società di metanizzazione Gas, venne costituita da un funzionario regionale, Ezio Brancato, ritenuto socio occulto di Vito Ciancimino. Le quote azionarie erano divise tra Brancato e il tributarista Giovanni Lapis, poi arrestato e condannato per avere riciclato nel gruppo parte dei miliardi di Ciancimino. Stranamente, questa società che tra soci palesi e soci occulti avrebbe meritato ben altri accertamenti, si vide – con la benedizione della mafia, dell’antimafia e delle istituzioni – assegnare, senza alcun bando di gara, lavori per circa 200 miliardi di vecchie lire, non appena “fatta fuori” in maniera “legale” la concorrenza. Ovvero le aziende dei Cavallotti.
Un capitolo a parte, meritano i rapporti di parentela o di altro genere, di taluni magistrati (di proposito scritto minuscolo) palermitani. Non dobbiamo infatti dimenticare l’inchiesta Mafia-Appalti, voluta da Giovanni Falcone e affidata a servitori dello Stato, come il Gen. Mario Mori e il Col. Giuseppe De Donno, verso la quale lo stesso Paolo Borsellino, dopo la morte di Falcone, si era indirizzato. Un’inchiesta subito archiviata dopo la morte di Borsellino che, confermando la sua fiducia nei due ufficiali ai quali aveva chiesto la disponibilità a proseguire le indagini, aveva chiesto all’allora procuratore capo che gli venisse affidata. Cosa che accadde lo stesso giorno in cui Borsellino venne ucciso… Sembra quasi che a Palermo esista una forma di nepotismo di una certa magistratura, legato a una “scuola di pensiero” riconducibile a tutt’altro che non alla Giustizia. Ma torniamo a noi, su cosa si basavano le accuse rivolte ai Cavallotti?
R: L’accusa si basava su alcuni pizzini riconducibili a Provenzano in cui due delle nostre aziende venivano citate per la “messa a posto”, vale a dire per riscossione del pizzo. L’accusa muoveva, inoltre, dal travisamento delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia i quali non solo ammettevano di non conoscere i fratelli Cavallotti ma precisavano che nessuno di loro era mafioso. In verità, ne avevano sentito parlare solo come imprenditori vessati dalla mafia.
Secondo l’accusa, avremmo lavorato grazie alla mafia quando in realtà abbiamo sempre denunciato i furti e i danneggiamenti fatti nei nostri cantieri. Inoltre, nessuno dei nostri committenti è stato mai coinvolto in fatti di mafia. In che modo saremmo stati avvantaggiati dalla mafia rimane ancora oggi un mistero.
L’accusa era a tal punto infondata che, dopo due anni e mezzo di carcerazione preventiva, i miei familiari furono assolti con formula piena perché riconosciuti vittime di mafia.
La sentenza, però, venne ribaltata in appello con una motivazione che ancora oggi, a distanza di anni, mi lascia sgomento. Secondo i Giudici, i miei familiari erano colpevoli di essere vittime di estorsione e, pertanto, dovevano essere condannati perché «nessuno li obbligava a non cambiare mestiere».
La sentenza di condanna era a tal punto illogica che venne annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione. Seguì altra sentenza di assoluzione della Corte d’Appello di Palermo che divenne definitiva alla fine del 2010.
D: Intanto i beni restavano nelle mani degli amministratori giudiziari…
R: Esatto. Per gli stessi fatti che avevano portato all’assoluzione nel processo penale, tutto il patrimonio della mia famiglia fu sottoposto a sequestro di prevenzione nel Maggio del 1999. A disporre il sequestro fu la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, allora presieduta dal dottore Ingargiola, lo stesso che qualche anno dopo avrebbe condannato i miei familiari in appello nel processo penale con quelle motivazioni illogiche poi giustamente censurate dalla Cassazione.
Il primo grado del processo di prevenzione si concluse con la confisca e con l’applicazione della misura di prevenzione personale che – cosa non a tutti nota – è immediatamente esecutiva, a differenza delle sanzioni penali che si applicano quando la sentenza di condanna è definitiva. A disporre il decreto fu il collegio presieduto dalla dottoressa Silvana Saguto, oggi radiata dalla Magistratura e imputata presso il Tribunale di Caltanissetta con accuse gravissime che vanno dall’abuso d’ufficio alla concussione passando per l’associazione a delinquere. Il decreto fu applicato dopo che l’amministratore giudiziario, con l’avallo dello stesso Tribunale, aveva distrutto il nostro patrimonio, svendendo i rami di alcune aziende, rendendone inoperose altre e compiendo azioni di indubbia rilevanza penale, tutte denunciate alla competente autorità giudiziaria.
In appello l’accusa, nella persona del dottore Florestano Cristodaro, chiese la restituzione dei beni riconoscendo ancora una volta i miei familiari vittime e non complici della mafia. Tuttavia, la Corte, facendo copia e incolla del primo decreto, confermò la confisca senza neanche rispondere ai numerosi rilievi difensivi.
Non siamo stati giudicati da persone serene e imparziali. Siamo stati giustiziati da un plotone di esecuzione.
Il processo di prevenzione si concluse a Dicembre del 2015 con la confisca che, con evidenti forzature e contro ogni evidenza, ha ritenuto tutto il patrimonio frutto del reato per il quale i padri sono stati assolti.
Siamo stati addirittura sfrattati dalle nostre case, malgrado avessimo manifestato la nostra disponibilità a pagare un’indennità di occupazione in attesa del ricorso alla Corte Europea e della revisione del processo. Nel frattempo, le nostre case sono state lasciate incustodite e sono state vandalizzate.
D: Ai beni dei vostri padri si aggiungono quelli di voi figli…
R: Si. Lo stesso collegio, sempre presieduto dalla Saguto, alla fine del 2011, su segnalazione dell’amministratore giudiziario delle aziende dei padri, sequestrò l’azienda di noi figli ritenendo che fosse a loro riconducibile. In buona sostanza, venivamo accusati di essere i prestanome dei nostri padri. Sempre per un’altra strana coincidenza, l’amministratore giudiziario fece la segnalazione subito dopo che i nostri padri si rifiutarono di firmare una lettera predisposta dallo stesso amministratore giudiziario con la quale avrebbero dovuto esonerarlo da ogni responsabilità per il suo operato.
Subito dopo, iniziò una serie di sequestri a cascata che, seguendo lo stesso meccanismo della segnalazione degli amministratori giudiziari, portò al sequestro delle aziende riconducibili ai miei cugini. Le aziende di volta in volta venivano affidate dallo stesso collegio allo stesso amministratore giudiziario che le aveva segnalate. La serie si concluse con l’amministrazione giudiziaria della Italgas la quale era stata accusata di avere intrattenuto dei rapporti commerciali leciti con la nostra azienda.
D: Qual era il valore dei beni del primo sequestro e quale quello del secondo?
R: Impossibile stabilire il valore del patrimonio. Di certo le cifre dei sequestri e delle confische che si leggono sui giornali non sono attendibili. Per i padri, comunque, si ipotizzava un patrimonio di circa 60 miliardi di lire mentre per i figli di un patrimonio di 25 milioni di euro. Sdrammatizzando, si potrebbe dire che eravamo ricchissimi e non lo sapevamo.
In realtà il valore era di gran lunga inferiore mentre il danno causato va ben oltre queste cifre se pensiamo a ciò che poteva essere realizzato e che non è stato fatto. Forse, se non fossimo stati bloccati per via giudiziaria, oggi saremmo uno dei gruppi industriali più importanti del sud Italia.
La verità è che, con la distruzione delle nostre imprese, si è arrecato un danno enorme all’economia del nostro Paese. Si sono persi almeno 300 posti di lavoro e un grave pregiudizio è stato arrecato a centinaia di fornitori che collaboravano con noi che, a causa dell’amministrazione giudiziaria, non solo non hanno ricevuto il pagamento delle proprie forniture ma, dopo la chiusura delle nostre aziende, hanno perso un cliente che rappresentava per loro una importante fonte di reddito.
D: Arriviamo così al maggio dello scorso anno, quando vengono dissequestrati i beni di voi figli…
R: Si. La vicenda ha dell’incredibile. Infatti, quando la perizia dimostrò che noi figli avevamo investito risorse lecite, l’accusa, pur di non ammettere di essersi sbagliata, virò spiazzando tutti: i nostri padri non ci avevano trasferito beni o risorse economiche ma la loro conoscenza del mestiere. In pratica, venivano accusati di trasferimento fraudolento di esperienza lavorativa!
Fortunatamente, dopo 8 lunghi anni di sequestro, dopo 5 anni di perizia e il noto “scandalo Saguto”, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo composta da altri giudici, ha dissequestro la nostra azienda che, nel frattempo, però, era stata posta in liquidazione.
D: In che condizioni vi è stata restituita l’azienda?
R: Il patrimonio netto prima del sequestro era di due milioni di euro. Oggi è di meno 5 milioni di euro. Ci sono debiti per circa 10 milioni di euro, tasse e contributi previdenziali non pagati, 150 lavoratori hanno perso il posto di lavoro e avanzano parte degli stipendi e il TFR. Circa 500 fornitori non sono stati pagati. Il rischio concreto è quello di passare dal girone infernale della Sezione Misure di Prevenzione a quello altrettanto infernale della Sezione Fallimentare.
Potremmo dire che abbiamo perso tutti. Gli unici che ci hanno guadagnato sono gli amministratori giudiziari che, con l’avallo del Tribunale, hanno nominato coadiutori, assunto nuovo personale senza alcuna esperienza e percepito importanti compensi che hanno gravato sulle casse della nostra azienda.
D: Quali prospettive per il futuro e come pensa di rivalersi?
Il futuro è molto incerto. Di certo abbiamo davanti ancora molte battaglie giudiziarie e speriamo di avere la forza di affrontarle tutte. Ricordo il ricorso alla Corte Europea, già dichiarato ricevibile, promosso dai nostri padri tre anni fa. A questo si aggiunge il processo per la revocazione della loro confisca che si svolgerà davanti ai giudici italiani e che si basa sulle prove nuove. C’è poi il processo d’appello che riguarda le aziende di noi figli. A questi si aggiungono gli esposti con cui abbiamo denunciato la mala gestio degli amministratori giudiziari.
Abbiamo ripreso in mano un’azienda oberata da milioni di euro di debiti e valuteremo se ci sono le condizioni per riprendere a lavorare non per guadagnare qualcosa ma nella prospettiva di pagare i debiti fatti dagli amministratori giudiziari.
In tutto questo, il mondo va avanti, gli anni passano e dobbiamo fare i conti con i bisogni della vita reale.
Nonostante tutto, siamo convinti che prima o poi tutto finirà per il meglio perché la verità non si può nascondere per sempre. Si tratta solo di trovare il coraggio di fare giustizia per restituirci non gli anni di vita persi ma ciò che rimane di quanto è stato costruito con i sacrifici e il sudore della fronte.
Personalmente, non mi fermerò finché non vedrò i miei genitori e i miei zii ritornare a casa.
D: Fu dunque fondata sulla teoria del sospetto l’accusa causa delle vostre disavventure?
R: Le cause sono molteplici. C’è stata sicuramente la colpa o il dolo di alcuni Magistrati che, strumentalizzando la lotta alla mafia e le misure di prevenzione per interessi personali, hanno distrutto importanti realtà imprenditoriali. Intere popolazioni sono state vessate e si è finiti col sostituire ad una economia reale e legale una economia parassitaria fatta di amministratori giudiziari, coadiutori e colletti bianchi senza alcuna esperienza e responsabilità, nominati “a fiducia” o su raccomandazione e non di certo per meriti e competenza.
Voglio, però, precisare che si tratta di una piccola parte di Magistrati e che non si può mettere in discussione la stragrande maggioranza della Magistratura, fatta da uomini e donne che quotidianamente lavorano in silenzio in maniera meticolosa.
Ma c’è anche una legge sulle misure di prevenzione molto diversa dalla nota Rognoni-La Torre, una legge che, così com’è fatta, genera abusi e ingiustizie. Occorre rivederla non per abrogare una legge scritta con il sangue dei martiri ma per evitare che domani altri Giudici ne possano abusare distruggendo intere famiglie.
Si è legiferato conferendo ai Magistrati sempre maggiori poteri sul presupposto populistico che bisognasse dare loro carta bianca per combattere la mafia.
Ma le cose non stanno così. La legge deve essere chiara e la sua interpretazione non può essere lasciata all’arbitrio di qualcuno perché la giustizia non deve essere ridotta ad una questione di mera fortuna. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di sapere prima cosa può portare ad una misura di prevenzione. Oggi tutto è lasciato ad una inaccettabile discrezionalità dei Giudici.
La certezza del diritto, la difesa degli innocenti e dello Stato di Diritto sono esigenze non meno importanti del dovere sacrosanto di sconfiggere il malaffare.
D: Cosa pensa che dovrebbe cambiare della legge in vigore?
R: Per evitare disastri, nel caso di sospetti, basterebbe affiancare all’imprenditore, innocente fino a prova contraria, un amministratore giudiziario che lo controlli. Non si deve intervenire con il sequestro nominando un soggetto che non sa nulla di quella realtà produttiva e che finisce sempre, anche quando non c’è dolo, per gettare sul lastrico i lavoratori. In questo modo verrebbero salvaguardati i posti di lavoro, i rapporti coi fornitori, la continuità aziendale e i patrimoni. Non ultimo, non si distruggerebbero vite umane. Se, all’esito del processo dovesse essere provata l’origine illecita del patrimonio si interverrà con la confisca; nel caso opposto, verrebbe restituito al legittimo proprietario un patrimonio integro.
Credo, inoltre, che non sia giusto confiscare la vita di una persona assolta e, pertanto, occorre intervenire sul rapporto tra processo di prevenzione e processo penale. È inaccettabile che con un semplice sospetto si confischi il patrimonio creato in una intera vita di lavoro.
Sarebbe indispensabile prevedere una forma di risarcimento del danno per quanti si sono visti restituire le macerie delle proprie aziende e una responsabilità civile effettiva per chi, amministrando, ha causato danni con o senza avallo dei giudici.
Da questo punto di vista insieme a Massimo Niceta, stiamo portando avanti, con il Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino, alcune proposte di revisione del sistema delle misure di prevenzione.
Si può combattere la mafia senza distruggere la vita di persone che con la mafia non hanno nulla a che fare. Basta volerlo.
Lascio Pietro Cavallotti ai suoi problemi, alla ricerca della soluzione su come risolverli, ponendo a me stesso un’ultima domanda: Cosa hanno fatto di male queste persone per aver avuto la sfortuna di essere nate in una terra che le ha viste prima vittime della mafia e poi di una mala giustizia amministrata secondo il “sistema Saguto”?
Si può combattere la mafia, basta volerlo… E su questa affermazione, non vado oltre, altrimenti dovrei pormi tantissime altre domande a partire da quella dinastia di magistrati che hanno governato il sistema giudiziario di Palermo, passando lo scettro ai nuovi delfini della stessa scuola di pensiero e, forse, con gli stessi interessi. Sicari senza lupara ma che uccidono alla stessa maniera…
Non vado oltre, ho scritto. Ma non ne sono certo. Anzi, sono sicuro dell’esatto contrario, perché solamente facendo pulizia nei palazzi del potere, possiamo sperare di vedere un giorno sconfitta la mafia… in tutte le sue forme…
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