Da Orlando a Spataro, da Violante a Colombo, da Paciotti a Mancuso. E c’è chi disse che Falcone aveva organizzato il “finto” attentato all’Addaura
Giovanni Falcone è il vero esempio da seguire come modus agendi, insieme a Paolo Borsellino , Antonino Caponnetto e pochi altri , nel quotidiano contrasto alla mafia di potere e ai suoi collegamenti di palazzo. Giovanni Falcone ereditò il prezioso lavoro investigativo di Rocco Chinnici. La Mafia è forte perchè serve a quei pezzi dello Stato che la usano per gestire potere. E chi gestisce potere cerca di entrare ovunque per raggiungere l’obiettivo. Non conosce ostacoli e neanche colore politico. Se i mafiosi avessero trovato un fronte compatto all’interno delle istituzioni, non avrebbero avuto tutto il potere che hanno gestito per decenni. Falcone disse: Per colpire la mafia di potere occorre seguire i soldi”. Mai frase fu più opportuna. I morti di fame non servono a questi personaggi. Falcone e Borsellino sono stati uccisi due volte. Le stragi hanno tolto loro la vita, la mancanza di verità su quanto è accaduto nel 1992 ne offendono la memoria e il loro alto sacrificio. Lo stesso si deve affermare per gli uomini della scorta
La strage di Capaci,l’ attentato messo in atto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992, sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo non era solo affare da corleonesi. Nell’attentato persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli unici sopravvissuti furono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
Lo hanno odiato in vita, Giovanni Falcone, e combattuto e attaccato. Gli hanno sbarrato la strada ogni volta che hanno potuto, e lo hanno massacrato quando andò a dirigere gli Affari penali in quel ministero della Giustizia guidato dal socialista Claudio Martelli sotto il governo del democristiano Giulio Andreotti. Lo hanno crocifisso perché non si beveva le balle dei pentiti, e lo hanno maledetto perché pensava che il sospetto fosse l’«anticamera del komeinismo» e non della verità. Non lo sopportavano perché si interrogava su quel reato-non reato qual è il concorso esterno in associazione mafiosa, per il suo essere favorevole alla separazione delle carriere fra giudici e pm, contrario all’obbligatorietà dell’azione penale, dubbioso sull’efficacia del 41bis e perché rigettava l’idea di un “terzo livello” della mafia fatto di politici e massoni.
La strage di Capaci, quella mattanza voluta dalla mafia secondo i processi ma anche, secondo alcune ricostruzioni, dallo strano atteggiamento di pezzi dello Stato nel gestire la difesa di Falcone e nella quale rimasero uccisi il magistrato-eroe, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, rimane piena di punti oscuri .L’ipocrita piagnisteo di chi lo disprezzò in vita si è fatto più rumoroso, frastornante, strepitante negli anni, forse per nascondere le tante falsità raccontate sulla strage. Il rumore dei falsi , non può e non potrà mai, silenziare la storia e la verità dei fatti.
E la storia ci racconta che le ostilità contro Falcone furono potenti, ciniche, sprezzanti. Già nel 1983 Giovanni Pizzillo, allora presidente della Corte d’appello di Palermo, disse che le sue indagini stavano «rovinando l’economia di Palermo», e nel gennaio del 1988, quando il magistrato sarebbe dovuto diventare consigliere istruttore di Palermo, il Consiglio superiore della magistratura gli preferì l’altro magistrato in lizza, Antonino Meli. Fra quelli che votarono contro Falcone ci fu Elena Paciotti, che poi divenne presidente dell’Associazione nazionale magistrati e parlamentare europea nelle fila dei Democratici di sinistra. Ma il livore verso Falcone si fece più duro l’anno dopo, quando, di fronte alle accuse del collaboratore di giustizia Giuseppe Pellegriti contro Salvo Lima, indicato come mandante di alcuni delitti in terra siciliana, Falcone intuì la contraddittorietà delle sue affermazioni e lo incriminò per calunnia. Poco dopo, colui che alla mafia diede il colpo più micidiale con il Maxiprocesso, liquidò la teoria del “terzo livello” che tanto piaceva ai complottisti di ogni risma: «Il terzo livello dell’organizzazione mafiosa – disse di fronte al Csm -, inteso quale direzione strategica formata da politici, massoni e capitani d’industria, vive solo nella fantasia degli scrittori».
ORLANDO VERSUS FALCONE
A non digerire quello stile, garantista fino al midollo, fu il sindaco (ex e attuale) di Palermo, Leoluca Orlando, che dallo studio televisivo di “Samarcanda” di Michele Santoro lanciò i suoi strali contro Falcone: «Dentro i cassetti del Palazzo di giustizia – affermò – ce n’è abbastanza per fare giustizia» sui delitti di mafia. Il magistrato stavolta reagì: «Questo è un modo di fare politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Il sindaco faccia nomi e cognomi, altrimenti taccia». L’avvocato Alfredo Galasso, parlamentare della Rete di Orlando, e Carmine Mancuso, “orlandiano” pure lui, accusarono Falcone di non dare il giusto valore alle versioni dei pentiti e di affidarsi solo alle prove fattuali. Quei sospetti gettatigli addosso gli valsero un “processo” davanti al Csm. E quando, nel giugno del 1989, ci fu il fallito attentato all’Addaura, accanto alla villa palermitana di Falcone, da sinistra lo accusarono, come testimoniò il politico comunista Gerardo Chiaromonte, di esserselo fatto da solo. Il peggio, però, arrivò dopo, quando il magistrato, avendo in mente di creare la Procura nazionale antimafia, accettò di andare a dirigere gli Affari penali con Martelli.
LA STAMPA ACCUSA
Più di una toga criticò Falcone perché si faceva vedere in giro col ministro, mentre un’altra toga, Armando Spataro, non vedeva di buon occhio l’arrivo di Falcone a capo della Superprocura antimafia: «Ha fatto una ferraglia – disse – e ora vuole guidarla lui». Sull’Unità, Alessandro Pizzorusso, membro del Csm in quota Pds, scrisse che Falcone non avrebbe potuto guidarla, e “Magistratura democratica”, la corrente di sinistra dei pm, comunicò che la Direzione nazionale antimafia voluta da Falcone rappresentava «una grave lesione alle prerogative del parlamento e all’indipendenza della magistratura», tanto da considerarla «un disegno» per una «ristrutturazione neo-autoritaria». E se l’ex parlamentare pidiessino Luciano Violante consigliò al ministro di lasciar perdere, invitandolo a «non insistere» perché tanto «il tuo cavallo non passa», l’assalto più virulento arrivò dal quotidiano Repubblica, che il 9 gennaio del 1992, pochi mesi prima della strage, pubblicò un articolo a firma Sandro Viola intitolato «Falcone, che peccato…». L’editoralista scrisse che non riusciva più a «guardare a Falcone con rispetto», aggiunse che il magistrato era affetto da «febbre di presenzialismo» e lo invitò ad «abbandonare la magistratura», visto che ormai era in preda a una «eruzione di vanità», la stessa che colpiva i «guitti televisivi».
NEMICI
Il 26 maggio del 1992, tre giorni dopo il massacro di Capaci, il pm milanese Ilda Boccassini si rivolse prima al collega Gherardo Colombo («Tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai suoi funerali?»), poi agli altri magistrati presenti al palazzo di Giustizia di Milano per la commemorazione del magistrato ucciso: «Sabato sono andata a Palermo ma l’ho fatto alla chetichella, tardi, quando tutti se n’erano andati. E domenica mattina sono tornata presto all’ obitorio, perché volevo essere sola come era stato solo Giovanni. Non volevo vedere lo scempio che si sta verificando oggi a Palermo, con i funerali di Stato (…). Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. C’è tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Ditelo adesso e voltiamo pagina». Rimasero tutti in silenzio.
Fonte: Il Tempo