Dopo la Corte Europea, la Corte Costituzionale è intervenuta per applicare la sentenza di quest’ultima che già aveva dichiarato essere contraria ai diritti dell’Uomo sanciti dalla Carta Europa, l’ergastolo c.d. “ostativo”. Ostativo in base alla pronunzia stessa delle condanne (per reati di mafia), rispetto a possibili provvedimenti di addolcimento della pena (permessi, semilibertà, liberazione condizionale etc.).
L’”ergastolo ostativo” era una misura di “lotta alla mafia” e, più specificamente, un espediente ulteriore per ottenere la “collaborazione” dei boss condannati alla più grave pena, che solo con la c.d. “collaborazione di giustizia” avrebbero potuto godere (!!??) qualche attenuazione del “carcere a vita”.
Per favorire il fenomeno del “pentitismo” si era palesemente ricorsi ad una violazione della Costituzione, che, stabilendo che le pene devono essere ispirate e finalizzate alla redenzione del reo, essendo solo la prestazione di “collaborazione” e nessun’altra manifestazione di ravvedimento condizione dei “benefici” fosse, questo un limite inammissibile.
L’entità e la degenerazione del fenomeno del “pentitismo”, avrebbe dovuto già da tempo spingere le Corti italiane a non sacrificare addirittura un principio costituzionalmente garantito ad una sia pur rilevantissima, ma nemmeno eccezionale esigenza non di giustizia, ma di “lotta”.
C’è voluta la parola, l’ordine della Corte Europea perché la Consulta fosse capace di far valere la nostra Costituzione.
Dovremmo, almeno essere capaci di vergognarci un po’ di tutta questa sconcezza.
La riduzione dei “benefici” per buona condotta agli ergastolani condannati per mafia “collaboratori” è stata ed è tuttavia una vera aggravante, quella della loro innocenza, per le vittime di errori giudiziari proprio, cioè per i condannati innocenti.
Per “collaborare” con la Giustizia, bisogna, infatti essere effettivamente colpevoli, veri mafiosi.
Il condannato innocente (e ce ne sono!?) non può “collaborare”, perché non sa nulla di quello che si vorrebbe dicesse alla Giustizia.
Nella mia vita professionale ho avuto modo di scontrarmi con tale assurdità. Stranamente, l’ho spuntata.
Dopo non so quanti ricorsi contro l’applicazione del “41bis” (che è, quanto al regime carcerario, l’opposto dei benefici per buona condotta) andai a difendere un condannato all’ergastolo benché, cosa di cui ero e sono assolutamente certo, innocente. Dieci anni di 41 bis. Ero fuori di me dalla rabbia. Dissi al Tribunale che il 41 bis lo avrebbero dovuto applicare a me, perché io avevo sconsigliato quel poveretto, ridottosi a prospettarmi false dichiarazioni anzitutto di autoaccusa per poter “beneficiare” del regime normale carcerario, benché straziato da quell’ingiustizia di cui mi si riproponeva avanti agli occhi la gravità e l’assurdità, avevo fatto presente al mio cliente che, essendo persona onesta, non sarebbe riuscito a farsi passare per “pentito”. Ero io, dunque la causa “ostativa” alla revoca di quell’inumano regime carcerario.
Non so come ciò sia potuto avvenire ma, il Tribunale ne fu impressionato.
Il regime del “carcere duro” (41 bis) fu revocato e dopo di allora quel poveretto, non solo è stato ammesso al regime carcerario normale, ma ha usufruito di permessi e autorizzazioni al lavoro in “semilibertà”.
Grazie a quei giudici che hanno saputo essere tali, cioè giusti, esponendosi, probabilmente a qualche ritorsione.
Considero quel caso il più vero e commovente successo professionale. Ma è spaventoso che per un avvocato del nostro Paese il successo sia ancora da cercare, e riuscire ad ottenerlo, con la limitazione della crudeltà, una terribile ingiustizia.
Mauro Mellini
24.10.2019