Tommaso Buscetta: un collaboratore tra luci ed ombre
Pubblichiamo un importante stralcio di una inchiesta valorizzata dal sito Identità di Clio che collabora con l’Università di Palermo
“Chi cerca la verità non si fa influenzare da politici e mafiosi loro complici.
Chi cerca l’ingiustizia preferisce sempre mettere tappi in bocca”
«Buscetta e gli omicidi eccellenti»
di Girolamo Alberto Di Pisa
Furono le accuse di Buscetta che, nel novembre del 1984, determinarono l’incriminazione e l’arresto di Nino ed Ignazio Salvo i potenti esattori di Salemi perché ritenuti organici a Cosa Nostra. Veniva in tal modo toccato il più alto livello del mondo politico e della finanza di Palermo. Il loro impero finanziario era valutato in cinquemila miliardi. Buscetta aveva parlato di una richiesta venutagli dai Salvo mentre si trovava in Brasile, di venire in Sicilia per cercare di intervenire nello sterminio che i corleonesi avevano intrapreso nei confronti di tutti gli appartenenti alla cosiddetta vecchia mafia. Rivelò anche che Nino ed Ignazio , allorquando era venuto in Italia dopo essersi sottratto al soggiorno obbligato in Torino, lo avevano nascosto nella loro villa di Casteldaccia.
Nel dicembre del 1994 Buscetta dirà la sua anche sulla strage di Via D’Amelio in cui persero la Vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Nell’aula bunker di Rebibbia, deponendo a proposito della strage dirà. ”E’ stata decisa da chi sta in alto. La mano fu di Cosa Nostra, ma per scoprire la mente bisogna guardare altrove (….) Cosa Nostra non aveva interesse a fare una nuova carneficina dopo quella di Capaci. Già lo Stato aveva rilanciato l’offensiva. Volevano altri guai?”. Quando gli viene chiesto di essere più preciso risponde: “Una idea ce l’avrei ma è meglio tenermela dentro. Posso solo dire che i mandanti bisognerebbe cercarli da qualche altra parte”. Quando poi gli viene chiesto se allude alle menti raffinatissime, Buscetta ride e risponde: “Questa è una domanda da dieci milioni di dollari”. Ed ancora: “La concomitanza tra le stragi di Capaci e via D’Amelio farebbe pensare a un collegamento con i processi di mafia, ma non è così. E’ banale supporre anche che Borsellino sia stato ucciso perché stava per andare alla Direzione Nazionale Antimafia. Che c’entra’. Morto lui ne arriva un altro che fa le stesse cose. La matrice è Cosa Nostra, non c’è dubbio, perché è l’unica organizzazione in grado di scatenare quel macello. Ma forse c’è qualcosa che va in la…potrei azzardare ipotesi e non mi sembra il caso…. Cosa Nostra ha sempre cercato il rapporto con i potenti: politici, giudici, poliziotti. Erano la chiave per aprire la cassaforte”. È il solito Buscetta che dice e non dice e che usa il linguaggio del vecchio padrino soprattutto quando si tratta di parlare di livelli superiori alla mafia militare. In ogni caso, sulla strage di via D’Amelio non aveva informazioni dirette. La tesi di Buscetta sembrò essere avallata dalla Procura di Caltanissetta allorquando, i sostituti che si occupavano delle indagini dichiararono: “L’uso di tecnologie sofisticate e dello stesso esplosivo impiegato per la strage dell’Italicus, porterebbe ad altri ambienti proprio come afferma Buscetta”. Di fatto si trattò di considerazioni astratte e generiche che chiunque, scrivendo uno dei tanti libri di mafia, avrebbe potuto formulare ma che nessun apporto concreto alle indagini erano in grado di fornire.
Più o meno dello stesso tenore furono le dichiarazioni rese da Buscetta, nel novembre del 1992, dinanzi la Commissione parlamentare antimafia, a proposito dell’omicidio del generale Dalla Chiesa. Disse in quella sede che nel 79: “mentre stavo in carcere a Cuneo, Cosa Nostra mi dette l’incarico di fare una proposta ad un terrorista (di cui non fece il nome ndr)”, aggiungendo, dopo averlo contattato, di avergli fatto il seguente discorso: “Se la mafia uccide il generale Dalla Chiesa, le Brigate rosse sono disposte a firmare il delitto?” La proposta non incontrò l’assenso del brigatista il quale gli rispose che le BR “firmano solo delitti eseguiti direttamente”. Alla contestazione mossagli secondo cui non si comprendeva come nel 79 la mafia potesse avere interesse ad eliminare Dalla Chiesa che a quel tempo comandava i nuclei antiterrorismo e non si occupava di Cosa Nostra, Buscetta rispose che la mafia non aveva un interesse diretto: “era lo Stato che aveva interesse ad uccidere Dalla Chiesa”. Come al solito non spiegò, in concreto, quale fosse questo interesse dello Stato e chi fossero questi rappresentanti dello Stato che volevano la morte di Dalla Chiesa. Così come non disse da quali esponenti di Cosa Nostra era stato incaricato di contattare il terrorista, del quale, come si è detto non fece nemmeno il nome.
Quando dopo le stragi sentì, come da lui sostenuto “il dovere morale” di dare un contributo alle indagini, e i magistrati della direzione Distrettuale di Palermo, si recarono nell’ottobre del 1992 a New York per sentirlo, parlò anche di Salvo Lima che, a suo dire, era figlio di un uomo d’onore appartenente alla famiglia di Palermo Centro di Salvatore La Barbera. Precisò: “Non mi risulta che Lima fosse mafioso. Anzi riterrei di escluderlo poiché lo avrei certamente saputo da Nino ed Ignazio Salvo, uomini d’onore della famiglia di Salemi”. Riferiva di averlo più volte incontrato negli anni 60 e che si rivolgeva a lui quando aveva bisogno di qualche favore. I contatti con Lima non erano intrattenuti direttamente ma tramite l’allora direttore dell’Istituto autonomo case popolari, Ferdinando Brandaleone, uomo d’onore della sua stessa famiglia. Incontrò Lima e Nino Salvo, dopo un lungo periodo di latitanza, nell’estate del 1980, a Roma in un grand’hotel di via Veneto. Buscetta parlò anche delle amicizie mafiose di Lima e riferì di incontri clandestini di quest’ultimo con il boss Stefano Bontate, incontri che avvenivano in un locale della circonvallazione di Palermo chiamato “Baby Luna”. Precisò: “ Si era lui il siciliano al quale la mafia si rivolgeva per avere le opportune coperture politiche a Roma”.
Una contraddizione va rilevata tra quanto affermato da Buscetta all’inizio della propria collaborazione in ordine alla rigida gerarchia esistente in Cosa nostra e quanto da lui dichiarato nell’ottobre del 1987, deponendo nell’ufficio del procuratore federale dello Stato di new York Rudolph Giuliani, davanti ai magistrati della Corte di assise di Palermo. In tale circostanza, smentendo le sue precedenti testimonianze sulle origini e la struttura di Cosa Nostra in Sicilia, dinanzi ad un incredulo presidente della Corte affermò: “La gerarchia? Ma no. C’è un malinteso. In tutti questi anni evidentemente non ci siamo capiti. Nella Commissione di Cosa Nostra non esiste gerarchia tra capo e soldato. Tutti hanno la stessa dignità”. Ed ancora in contraddizione con quanto sempre sostenuto affermò che a far parte della Commissione mafiosa vennero chiamati non i capi famiglia ma dei “soldati semplici”, con un notevole grado di “democrazia interna”.