La vicenda risale a tanto tempo fa . Contestualizzandola alle recenti indagini , questa vicenda dimostra quanto la famiglia Messina Denaro e il parente Filippo Guttadauro avessero interesse per gli affari e il cemento . Il loro interesse e la loro autorevolezza mafiosa era tanto forte che riuscì a bloccare un omicidio eccellente ordinato dai corleonesi
LA CONDANNA A MORTE E LA GRAZIA
La storia giudiziaria di Rosario
Cascio affonda le radici nei primi
anni ’70, quando il terremoto del
Belice aveva trasformato la mafia
da rurale a imprenditoriale, e continua
con un altro pezzo di storia
mafiosa, quella della diga Garcia.
L’opera rientrava a pieno negli
interessi dei Corleonesi che avevano
costretto a forza di attentati
l’azienda aggiudicatrice dei lavori,
la “Lodigiani”, a cederli in subappalto.
Rosario Cascio, interessato
a prendere tutta l’opera tramite
le sue aziende “Imac” e “Calcestruzzi
Belice”, si era rivolto al colonnello
dei carabinieri Giuseppe
Russo per perorare la sua causa
presso la “Lodigiani”.
Il risultato
è stato che il colonnello Russo
è stato ucciso per decisione dei
Corleonesi mentre Cascio è stato
condannato a morte da Totò Riina
in persona. A raccontarlo è stato il
pentito Giovanni Brusca a cui era
stato affidato l’incarico. Riina gli
aveva raccomandato di eliminarlo
in qualunque momento, anche
dopo 10 anni. Ma la “sentenza”
non sarebbe mai stata eseguita
probabilmente per l’intervento di
Matteo Messina Denaro o del padre,
Francesco. Perché intanto la
potenza economica di Cascio era
cresciuta vertiginosamente.
È nel 1969 che nasce la sua prima
impresa, la “Cascio Rosario & c.”,
poi incorporata nella “Calcestruzzi
Belice” nel 1974. Nel 1972 viene
costituita la “Simacem” e nel 1973
nascono la “Siciliana Conglomerati”
e la “Calcestruzzi Clemente”.
Nel 1975 Cascio entra nella
“Imac” che, nel 1980, sarà a sua
volta acquisita dalla “Calcestruzzi
Belice”. Stessa sorte toccherà
alla “Sime”, rilevata da Cascio nel
1982. Quattro anni dopo Cascio
diventa anche rappresentante legale
delle sedi siciliane della “Edilcostruzioni”
che, da quel momento,
farà man bassa di appalti. Alle altre
aziende, infatti, si affiancano anche
la “Inerti”, la “Calcestruzzi” e
la “Atlas cementi” con dentro Gianfranco Becchina e la famiglia Savalle
Poi si allarga e
abbraccia anche altri settori.
la “Efebo car” di Castelvetrano,
il paese di Messina Denaro.
La “Vini Cascio”, la “Saturnia”, la
società cooperativa “L’Olivo”, la
ditta individuale “Accardo Maria”:
tutte aziende nel settore dei prodotti
agricoli. La “Trasped”, trasporti.
La “Castelpetroli”, gestione
di distributori di benzina ma anche
bar, tabacchi, un ristorante e una
ricevitoria del lotto. Anche questa
con sede a Castelvetrano. Per tutti
gli anni ’80 Cascio consolida la sua
posizione fino a costituire, nei primi
anni ’90, l’unica realtà imprenditoriale
nel settore in tutta la valle
del Belice. Nel 1992, però, gli arriva
la prima ordinanza di custodia
cautelare per associazione mafiosa.
La vicenda confluirà nel processo
“Mafia e appalti” e la condanna a 6
anni diventerà definitiva nel luglio
del 2005. Tre anni dopo sarà nuovamente
arrestato nell’operazione
“Scacco Matto”.
IL NUOVO “TAVOLINO”
Cascio, che già in passato aveva
coadiuvato Angelo Siino nella gestione
del “tavolino” (il metodo
di aggiudicazione pilotata degli
appalti con un accordo fra mafia,
politica e imprenditoria), avrebbe
applicato lo stesso metodo nelle
province di Trapani e Agrigento
sulla fornitura degli inerti. Il
metodo ha un nome, il consorzio
Unicav. Si tratta di un cartello di
imprese attraverso il quale si regolava
la produzione e il commercio
degli inerti, nonché l’estrazione
dalle cave, e si gestivano gli appalti
pubblici. L’Unicav raggruppa quasi
tutte le cave di inerti del Belice,
“esclude la reciproca concorrenza
tra i gestori delle cave – scrissero
i giudici – e indirizza gli appaltatori
dei lavori pubblici verso
ciascuna di esse con quote prestabilite”.
Dentro c’era Sambuca
(cava “San Giovanni”, di Antonino
Maggio), Montevago (“Cicchitello”,
impianti riconducibili
a Cascio), Caltabellotta (“Taia”,
di Melchiorre Di Maria), Menfi
(“Inerti srl” di Giuseppe Pedone,
genero di Cascio), Sciacca (“Fornaci
Virgilio” di Domenico Sandullo).
L’Unicav aveva una sede e un
ragioniere ma non è iscritta alla
camera di commercio e, in teoria,
non potrebbe vantare potere contrattuale
contro terzi. Ciò che le
dava il potere erano i collegamenti
con Cosa nostra.
GLI ATTRITI
Nell’officina meccanica di Antonino
Gullotta (presunto uomo
d’onore della famiglia di Montevago),
a luci spente – alcuni mafiosi
credevano che in questa maniera
non si attivassero intercettazioni
– il 5 maggio 2006 si sentono
parlare Gino Guzzo (capofamiglia
di Montevago e capomandamento
del Belice) e Giuseppe La Rocca.
Questi racconta di aver incontrato
un imprenditore che si lamentava
che dopo aver pagato 42 mila
euro a Calogero Rizzuto (poi diventato
collaboratore di giustizia),
la fornitura di calcestruzzo che si
era così assicurato non gli era stata
assegnata. Così Filippo e Giovanni
Campo (titolari della Cafc di
Menfi) avevano chiesto l’intervento
di Guzzo. E si scopre che
un motivo c’era. Su indicazione
dei vertici di Cosa nostra, Cascio
aveva rilevato un impianto di calcestruzzi
a Sciacca (la “Feudotto”,
già di Giovanni D’Anna) per fare
un favore al titolare, pagando più
del suo valore. In cambio, Cascio
aveva avuto il lavoro per cui
i Campo avevano già sborsato la
tangente. “Ora il discorso com’è?
– dice Guzzo – questo cristiano è
in mezzo alla strada, stava fallendo,
chiede aiuto a persone, giusto!
Allora gli si dice… dice: ma non
ci vale tanto! Va bene, ma non vi
preoccupate, ci sarà lavoro in seguito…
prendetevi questo coso, a
questo qua non lo abbandoniamo;
gli dobbiamo dare la possibilità
di mangiare, quindi mettetevelo
come socio… Ora quelli ci si è fatto
prendere quell’impianto…”. E i
fratelli Rosario e Vitino Cascio si
rivolgono anch’essi a Guzzo per
eliminare la concorrenza. In questo
caso, è il maggio del 2006, si
tratta di Nicolò Errante che, a Santa
Margherita Belice, faceva prezzi
migliori e si aggiudicava i lavori.
Ma Guzzo, a sua volta, si rivolge
ai Cascio per ottenere un incontro
con Filippo Guattadauro (fratello
di Giuseppe, già campomandamento
di Brancaccio a Palermo,
e cognato di Messina Denaro) per
questioni di “messa a posto” di
una società di Alcamo e per aprire
un supermercato. Poi tramite Vitino
Cascio, Guttadauro fa sapere
a Guzzo di volerlo incontrare a
Castelvetrano con tutte le cautele
del caso e che deve essere lui a
dirimere le questioni dei Campo
che rivendicavano il mancato assegnamento
dell’appalto. La storia
non si ferma qui e gli attriti fra i
Campo e i Cascio arrivano a Palermo.
Il pastore Pasquale Ciaccio
dice al telefono a Guzzo di avere
una risposta proveniente da Palermo
e diretta a Trapani. Filippo
Campo col fratello voleva comprare
la “Feudotto” ma una serie
di intimidazioni ha fatto cambiare
loro idea.
PIZZO AL 3%
C’era anche chi però non voleva saperne
di aderire al consorzio Unicav.
Leonardo e Francesco Diesi
collaborano con gli inquirenti e
parlano di Cascio come di “uno dei
principali artefici della creazione di
un cartello di imprese atte a gestire,
per conto di Cosa nostra, gli appalti
pubblici nell’area territoriale dei
comuni di Poggioreale, Salaparuta,
Partanna, Menfi, Montevago e
Sambuca di Sicilia. Nella seconda
metà degli anni ’90 – stando alle
loro rivelazioni – ha ampliato la
propria sfera di influenza con la
creazione del consorzio Unicav,
che raggruppa diverse imprese di
proprietà di soggetti anche legati
ad esponenti di Cosa nostra, dedite
allo sfruttamento della cave d’inerti
e di sabbia ubicate nei comuni
di Montevago, Sambuca di Sicilia
e Caltabellotta”. Leonardo Diesi,
a proposito di Cascio, aggiunge:
“Uomo potente che ha occhi dappertutto
e cumanna dappertutto”.
Sin dal 1984 per poter effettuare le
forniture di cemento a Salaparuta
e Poggioreale si doveva versare una
somma fra il 2 e il 3% dell’importo
dei lavori a Francesco la Rocca, prima,
e Francesco Fontana poi, che
riscuotevano per conto di Cascio.
Quando i Campo si erano rifiutati
di continuare a pagare e avevano
chiesto l’intervento del loro
capofamiglia Bartolomeo Cascio
di Roccamena, Pietro Campo e
Giuseppe Artale (famiglia di Santa
Margherita) avevano fatto sapere
che dovevano abbandonare i lavori
nei comuni di Salaparuta, Poggioreale
e Santa Margherita. L’unico
fornitore accreditato era Cascio.
Francesco Diesi, rispetto a quanto
detto dal fratello, aggiunge una deduzione.
“Cascio fatturava per tutti
e il 3% lo dava alla mafia. Questo
per via dei rapporti intrattenuti
con Messina Denaro, mediati da
Guttadauro”. Ai due imprendito-
ri fu anche imposto di prendere il
cemento all’Atlas. Francesco Fontana
li aveva avvertiti: “Magari per
tenere un pochettino calmo a Sarino
una volta che voi avete sta testa
perché dice, vedete che le tragedie
che vi mette non sono normali”.
Giuseppe Diesi, nell’aprile del
2007, ha denunciato di essere stato
“avvicinato” e invitato ad abbandonare
la fornitura di calcestruzzo
a Santa Margherita. Guzzo gli
avrebbe spiegato come da 30 anni
c’era l’ordine di favorire le imprese
di Cascio.
LA RETE DEI PARENTI
Cascio era presente in tutte le società
anche tramite la moglie, i figli, i fratelli
e altri parenti. Tutto parte dal
commercio di inerti e calcestruzzo,
con una sinergia fra produttori
e chi commercializza. Ma, secondo
le indagini, non si trova la fonte
dei capitali che hanno consentito la
costruzione di questo impero economico
e non si può ricondurre
tutto ai redditi denunciati al fisco.
Ciò nonostante il patrimonio di
Cascio è stato più volte sequestrato
e dissequestrato. E le indagini della
Dia hanno dimostrato come “una
volta rientrato nella disponibilità
di tale imprese a novembre 2001”,
sia queste che lo stesso Cascio “abbiano
innalzato immediatamente
e rapidamente le proprie consi-
stenze economiche” mentre, fra il
1993 e il 2000, quando le aziende
erano sotto sequestro “subirono
un brusco rallentamento nella loro
crescita, sino ad allora cospicua,
con una netta diminuzione del volume
d’affari, degli utili e della patrimonializzazione”.
Cascio, oltre
alla rete societaria, ha accumulato
anche molti immobili, la maggior
parte dei quali a Castelvetrano. E
i beni di cui non è formalmente
titolare, sono intestati a Vitino Cascio
(fratello), Maria Accardo (moglie),
Marisa Patrizia, Salvatore e
Onofrio Cascio (figli), Giuseppe
Pedone (genero), Elisabetta Bono
(cognata), Onofrio Cascio e Maria
Luana Cascio (nipoti), Baldassare
Ficani (marito di Maria Luana),
Maria Filomena Gulli (moglie di
Onofrio Cascio, nipote di Rosario),
Sandra Ganga (nuora). Il tesoro
di Cascio era già stato in parte
sequestrato il 23 febbraio 2009, ma
il Riesame ha parzialmente annullato
il sequestro. L’ordinanza è stata
impugnata in Cassazione.
L’OMBRA DI MESSINA DENARO
Gli inquirenti ritengono che dietro
Cascio ci sia Messina Denaro, ad
oggi probabilmente
il capo dei Capi. A
lui, infatti, si rivolge
chi vuole comunicare
con il latitante. Il
cui territorio è una
fortezza. “Qui il consenso intorno
a Messina Denaro è solido e superiore
rispetto a quanto accade a
Palermo – spiegano gli inquirenti
– dove Cosa nostra si divide, si fraziona”.
Nel Trapanese il consenso
è così forte e radicato che crea un
“cuscinetto di protezione”. Non
si ricorre infatti al pizzo a tappeto
ma le fonti di guadagno “derivano
dall’imprenditoria mafiosa. Messina
Denaro è a capo della mafia
dei colletti bianchi – conclude
il procuratore aggiunto Roberto
Scarpinato – in una sorta di ‘think
tank’ mafioso”.