Secondo le indagini dell’FBI e dei Carabinieri, dagli anni 60 da Selinunte è stato trafugato un patrimonio di inestimabile valore sotto gli occhi di tutti
Tutti sapevano e nessuno parlava
Solo Vincenzo Tusa cercò di contrastare il fenomeno
“Per i Beni Culturali, gli scavi clandestini rimangono la maggiore forma di aggressione: in Sicilia come in Italia – spiegano i carabinieri del Tpc – Il problema principale risiede nella scarsa vigilanza nei confronti di un patrimonio ricchissimo e soprattutto vastissimo”. Oggi, per esempio, come si presenta agli occhi di un visitatore il Parco Archeologico di Selinunte?
Incuria, rifiuti, poco controllo, una recinzione valicabile e in parte distrutta.
Da un sito online internazionale
270 ettari di un antico passato riemerso dalla terra con le sue necropoli, i suoi templi, le mura, le torri, una grande acropoli a strapiombo sul mare. Questa zona dal 1960 è stata continuamente predata dai tombaroli, gente comune, pescatori, abitanti dei paesi vicini, che conoscevano bene i tesori nascosti nel sottosuolo e che con essi per anni hanno arrotondato i loro redditi. “Un castigo di Dio”, li definì Vincenzo Tusa, soprintendente ai Beni Culturali della Sicilia occidentale dal 1963, che però come soluzione al problema pensò bene di assumerli: “Andai dal presidente del Banco di Sicilia, che era Carlo Bazan, e gli chiesi i soldi per assumerli. Lui mi promise tre milioni di lire di allora. Il venerdì seguente, di primo mattino, vidi una dozzina di tombaroli clandestini che tornavano dagli scavi. Dissi che sarebbero stati tutti assunti a partire dal lunedì successivo e così fu“.
La mafia degli anni 60 non capì subito l’importanza di quel business
Don Ciccio, padre di Matteo Messina Denaro, si rese conto dell’oro che gli passava sotto gli occhi con il furto del “PUPO”
La scomparsa di “u pupu”. Fu sempre Francesco Messina Denaro, a organizzare il furto dell’Efebo di Selinunte, nel 1962. La piccola statua greca (alta circa 85 centimetri) era detta “u pupu” e tenuta sul tavolo dell’ufficio del sindaco di Castelvetrano che lo usaca come porta cappelli. Una volta trafugata per essere venduta, venne portata in America, poi in Svizzera, infine tornò di nuovo in Sicilia quando si capì che nessuno l’avrebbe acquistata. Al Comune di Castelvetrano giunse allora una richiesta di riscatto di 30 milioni di lire, che nessuno pagò. Il 14 marzo del 1968 l’Efebo venne recuperato dalla polizia a Foligno, in Umbria.
L’interesse di Don Ciccio aumenta quando Gianfranco Becchina che conosceva bene il territorio, approdato in Svizzera- secondo gli investigatori- dopo alterne fortune sposa una figlia di un antiquario e entra nel complesso mondo degli affari internazionali di opere d’arte
A Don Ciccio che “li bacareddi” cosi li chiamano i pescatori di Selinunte, fino agli inizi degli anni 70 poco interessavano. Il mercato era piccolo. Non si guadagnava tanto. Con l’avvento di Becchina tutto cambia. Lui, porta li “bacareddi” in tutto il mondo, li sa vendere e porta tanti soldi. Inizia un periodo d’oro. Anche Tusa verrà beffato dai tombaroli che, presi dai facili guadagni tornarono a scavare. Becchina porta i metal detector, una vera rivoluzione per gli scavi.
Molti pescatori si buttano nel giro dei tombaroli. Negli anni 70, a Selinunte la vita di tanti di loro cambierà per sempre. Comincia la grande speculazione edilizia. Gente di mare che a stento sfamava la famiglia, comincia a costruire case, ristoranti e altre attività. Nel giro anche gente che non era selinuntina. Tutto permesso con il nulla osta di Don Ciccio. Matteo aveva 13 anni, non si preoccupava d’affari. Anni di soldi a palate
Chi è Gianfranco Becchina? Lui si definiva così: “Un mecenate, un collezionista, estraneo a ogni tipo di vendita illegale di oggetti d’arte”
Adesso, la DIA, gli ha sequestrato tutto il patrimonio
In sua difesa disse: Prima, su di me, indagò Paolo Borsellino, dopo la sua uccisione, il procuratore Gian Carlo Caselli, fu un’indagine sprecata, soldi dello Stato gettati al vento, ho smesso di essere un mercante d’arte dal 1994, e nel 1996 mi sono anche cancellato dal registro dei commercianti“.
Conosciuto da tutti a Castelvetrano, Becchina era proprietario di diversi edifici di grande interesse storico e artistico, come il Palazzo ducale dei principi Pigantelli Aragona Cortes Tagliavia. Situato nel cuore del centro storico di Castelvetrano, il palazzo era in realtà l’antico castello “Bellumvider” realizzato nel 1239 per accogliere Federico II. Becchina era pure in possesso di un bellissimo feudo dove oggi vive, a suo tempo appannaggio, anche questo, dei principi Pignatelli Cortes. Un parco di 25 ettari non lontano dai templi greci dell’area archeologica di Selinunte, con tremila ulivi dai quali produce il suo olio. “Non è un olio qualsiasi – spiega l’archeologoTsao Cevoli, presidente dell’Osservatorio internazionale archeomafie e direttore del master in Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio Culturale – Con il suo olio hanno condito l’insalata Clinton e Bush, perché è accreditato nientedimeno che come fornitore della Casa Bianca. Inoltre è stato socio di due grosse aziende produttrici di cemento: la Heracles in Grecia e la Atlas srl in Sicilia”.
I dossier dell’Fbi. A Becchina sono stati confiscati, dopo una lunga querelle con la Svizzera, i cinque magazzini stracolmi di opere d’arte. Veri e propri scrigni dove erano custoditi 5mila reperti archeologici, tesori dal valore inestimabile. Molti, sempre secondo i carabinieri Tpc, “provenivano da scavi clandestini e adesso potranno finalmente rientrare in Italia”. Questo patrimonio unico poteva contare, come quartier generale, sulla Galleria Palladio Antique Kunstdi Basilea, il cui proprietario era proprio Gianfranco Becchina. Ma c’è di più: nei cinque magazzini è stato trovato un gigantesco archivio, quello che l’Fbi chiamava il “Becchina dossier”, di cui i carabinieri sono finalmente entrati in possesso.
Con più di 13mila documenti, fatture, trasporti, lettere indirizzate agli acquirenti, migliaia di immagini polaroid, suddivise in 140 raccoglitori, questa enorme e dettagliata documentazione sembrerebbe ridisegnare alcuni dei passaggi più controversi della storia del commercio illegale delle opere d’arte. Lì, secondo gli inquirenti, Becchina annotava tutto, compreso il salario di un tombarolo tra i più conosciuti in Puglia, che lavorava alle sue dipendenze. A lui venivano fatturati, sotto la voce “pulizia monete”, 15mila euro ogni 12 mesi. Nel registro si legge anche dei 25 crateri apuli posseduti da un ingegnere palermitano, di cui Becchina mandò le foto al museo di Princeton, nel New Jersey, assicurando che provenivano “da una raccolta privata svizzera”. “Nel dossier Becchina risultano molti più oggetti fotografati e registrati, rispetto a quelli trovati nei depositi – spiegano ancora al Nucleo tutela patrimonio culturale – Ciò significa che sono ancora tante le opere che devono essere ritrovate”.
Si calcola che tra gli anni 70 e gli anni 90 l’asse Messina Denaro- Becchina abbia portato per il mondo oltre 4 mila opere selinuntine per un fatturato che la stessa polizia americana non è riuscita a quantificare in modo scientifico. Montagne di beni culturali piazzate in varie nazioni e in parte recuperate dopo il sequestro dei Carabinieri in Svizzera
Facendo un ipotesi per difetto, il giro d’affari presunto sui reperti archeologici trafugati avrebbe potuto toccare i 500 miliardi delle vecchie lire che, con il potere d’acquisto d’ allora e vari calcoli finanziari è paragonabile a oltre il miliardo di euro attuale. Una buona parte di tutti questi soldi sono rimasti a Castelvetrano.
Chi si sporcava le mani si accontentava delle briciole. Don Ciccio e altri amici di Becchina di certo avevano altri ritorni economici. Don Ciccio , come è risaputo era stretto con Totò Riina
Sarebbe interessante scoprire che fine hanno fatto tutti questi soldi. Forse Becchina lo potrebbe spiegare ai Carabinieri. Questa pista potrebbe portare al tesoro del boss ereditato dal padre
Fonte: Repubblica
Il Circolaccio