Sotto il governo a guida PD gli interessi dell’antimafia carrierista e di facciata si sono quintuplicati
Un vero e proprio sistema d’affari che gestisce milioni di euro e che nessuno controlla
Chi si permette di criticare il “mondo antimafia” può finire in un inchiesta o “subire “la gogna mediatica bene organizzata dallo stesso sistema
Molti paladini dell’antimafia hanno ottenuto vantaggi personali enormi
Complimenti a chi fa vera antimafia ed contro ogni mafia con i fatti, senza pretendere nulla in cambio
Per vendicarsi usano gli stessi metodi dei mafiosi.
In Sicilia il caso Montante apre uno squarcio nascosto da certe procure filo PD e vicine a Lumia autentico “patron” dell’antimafia politica e giustizialista, protettore di varie associazioni
Non sparano, non usano lame ma possono distruggerti la vita con l’appoggio dei loro amici all’interno delle istituzioni: Non hanno nessun rispetto per chi fa lotta alla mafia fuori i loro contesti.
Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all’ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo
E’ la faccia oscura dell’antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull’onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli.
Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un’antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l’obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative.
Sciascia li chiamava i “professionisti dell’antimafia”. Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti “Eroi della sesta” che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. “La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia”, sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura.
Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all’ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.
Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l’ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un “club” antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un’associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni.
Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d’associazione presso l’ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all’albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all’anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c’è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale.
Infine, le fondazioni: una volta redatto l’atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull’ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: “La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti.
Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell’Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale “416bis” o “41bis”. Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all’ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all’associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci.
Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti “contro tutte le mafie”. Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché “le denunce non siamo noi a doverle fare”, o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l’ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l’Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell’ordine che sotto lo stendardo dell’associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall’incarico e condannati per abuso di ufficio
Gli inganni dell’antimafia. Nel composito – e talvolta oscuro – universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in “icone” e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l’immagine pubblica della coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”, considerata un’eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche ‘ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un’indagine che alla fondatrice dell’associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell’operazione che ha portato all’arresto dell’ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose.
Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico “capace”, che sfilava in cortei contro la ‘ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l’appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell’operazione simbolicamente nominata “Inganno”, i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l’autrice di libri sulla ‘ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione “Enel Cuore” aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell’antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell’Arma hanno definito “motivi esclusivamente personali”. Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall’altra l’eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto “Le botteghe artigianali” sono stati spesi non per promuovere l’attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell’associazione.
L’antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di “Ammazzateci tutti”, finito nell’occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le ‘ndrine, fondato nel 2005 dopo l’uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un “fabbricato in corso di costruzione” a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni ’80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell’avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di “agguato mediatico” e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria.
Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell’ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, “fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l’antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa”.
Fonte : Repubblica
Il Circolaccio