Penso non sia il caso di fare nessun commento introduttivo, da leggere e basta.
Per comprendere l’importanza di quello che è passato alla storia come “Caso Contrada”partiamo da un’affermazione fatta dal giudice Paolo Borsellino poche settimane prima di essere ucciso nella strage di Via D’Amelio, riportata dal fratello Salvatore: “Solo a fare il nome di quell’uomo si può morire“. Il nome ovviamente è quello di Bruno Contrada, poliziotto dal 1958, dal 1973 a capo della Squadra Mobile di Palermo, che lascia nel 1976 [al suo posto subentra Boris Giuliano] per entrare nella Criminalpol. E poi nel 1982 il passaggio al SISDE, i Servizi Segreti, di cui scala i vertici dirigenziali (vicecapo reparto del SISDE) fino al 1992. E’ il 24 dicembre di quell’anno il giorno in cui per Contrada si aprono le porte del carcere. Un mese prima dell’arrivo di Giancarlo Caselli alla procura di Palermo e dell’arresto di Totò Riina (e venti giorni dopo il suicidio di Domenico Signorino, giudice “chiacchierato” del Maxiprocesso). Dietro le sbarre Contrada ci sarebbe restato per 31 mesi, in custodia cautelare: “non per l’accanimento della Procura o di un solo gip, ma perché le esigenze cautelari vengono confermate anche da tre giudici del Tribunale del Riesame e da dieci di due diverse sezioni della Cassazione” (Intoccabili, S. Lodato – M. Travaglio).
Di cosa è accusato Bruno Contrada? Il poliziotto è accusato di aver favorito, attraverso la sua grave condotta, Cosa Nostra. Azioni illecite, perpetrate come funzionario di Polizia, come dirigente dell’Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla criminalità mafiosa e, infine, presso il SISDE. Azioni che configurano reati di concorso in associazione per delinquere pluriaggravata ex artt. 110 e 416 commi 4 e 5 c.p., commessi in Palermo e altrove fino al 29 settembre 1982 e da tale data in poi (dopo l’entrata in vigore della fattispecie incriminatrice, introdotta con la Legge 13 settembre 1982 n.646) di concorso in associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata prevista dagli artt. 110 e 416bis comma 4 e 6 c.p. Contrada, in particolare, è accusato di aver fornito “ad esponenti della commissione provinciale di Cosa Nostra notizie riservate, riguardanti indagini ed operazioni di polizia, da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all’associazione“.
La vicenda giudiziaria. Il 5 aprile 1996 Contrada veniva condannato in primo grado a 10 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d’appello di Palermo annullava la sentenza di primo grado perché il fatto non sussisteva. Il 12 dicembre 2002 la Cassazione annullava la sentenza di secondo grado e ordinava un nuovo dibattimento presso un’altra sezione della Corte d’appello, che si concludeva nel 2006, confermando la sentenza di condanna di primo grado nei confronti dell’imputato. Sentenza che diventava definitiva per opera della Cassazione il 10 maggio 2007. L’11 ottobre 2012 Bruno Contrada viene scarcerato. Complessivamente trascorre 4 anni in carcere e 4 agli arresti domiciliari. Gli altri due gli vengono condonati per buona condotta. L’11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannava lo Stato italiano, a causa della ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada (da luglio 2008), che era gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario fosse una violazione dell’art. 3. Il 13 aprile 2015 la Corte europea condannava nuovamente lo Stato italiano perché Contrada non sarebbe dovuto essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all’epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) tale “reato non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso“. L’avvocato difensore di Bruno Contrada, Stefano Giordano, ha presentato negli ultimi anni quattro richieste di revisione del processo, tutte respinte. Infine nell’ottobre del 2016 la difesa ha presentato richiesta di revoca della condanna (chiedendo che venisse recepito il dettato della Corte europea), rigettata inizialmente dalla Corte d’appello di Palermo (che affermava che l’interpretazione della stessa Corte europea fosse incompatibile con l’ordinamento italiano), è stata accolta dalla Cassazione che ha annullato la condanna di Contrada perché “ineseguibile e improduttiva di effetti penali“.
I fatti (che hanno portato alla condanna di Contrada) restano, come ha dichiarato il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti. Il processo contro Bruno Contrada è stato istruito sulla base di numerosi testimoni e copioso materiale documentario, in particolare attraverso l’esame di più collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili e membri di primo piano di Cosa Nostra, come Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo, Rosario Spatola, Salvatore Cancemi, ecc. In sintesi venivano provate le condotte illecite di favoreggiamento a vantaggio di soggetti mafiosi noti a Contrada (rilascio di patenti di guida e porto d’armi); di agevolazione alla latitanza di mafiosi, primo fra tutti il capo mafia del mandamento di Partanna-Mondello, Rosario Riccobono, poi ucciso da Totò Riina nel 1982; di comunicazione di notizie di indagini programmate a carico di appartenenti a Cosa Nostra; di ripetute frequentazioni con soggetti condannati o indagati per appartenenza mafiosa. E’ bene ribadire, come fa anche la sentenza di condanna della Cassazione, che le dichiarazioni dei pentiti trovavano riscontro da fonti testimoniali e documentali autonome e indipendenti. L’indagine della procura palermitana, infatti, si focalizzava su nove episodi assai significativi. La cosiddetta vicenda Gentile con la perquisizione eseguita il 12 aprile 1980 presso l’abitazione dell’allora latitante Salvatore Inzerrillo, diretta dal funzionario della Squadra mobile di Palermo Renato Gentile, che riceve moniti e richiami da Contrada, resosi interprete delle doglianze dei soggetti perquisiti per l’irruenza attuativa dell’intervento investigativo; l’operazione di polizia eseguita il 5 maggio 1980 con l’arresto di indagati di mafia in flagranza di reato pertinente l’associazione per delinquere, da cui il questore di Palermo Vincenzo Immordino estromette Contrada (cui in origine era stato affidato l’incarico di preparare un rapporto che preludesse alla detta operazione), segnalandone agli organi superiori il contegno di sostanziale inerzia investigativa; l’agevolazione dell’allontanamento dall’Italia del mafioso italo americano John Gambino, nel contesto (Ottobre 1979) del simulato sequestro di persona di Michele Sindona, poco tempo dopo l’uccisione di Giorgio Ambrosoli e Boris Giuliano; i rapporti critici con Boris Giuliano nell’ultimo periodo di vita di quest’ultimoanche in riferimento ad un incontro che Giuliano avrebbe avuto con Giorgio Ambrosoli poco prima che questi fosse ucciso, in merito ad indagini e accertamenti che entrambi stavano svolgendo; l’aver favorito il rinnovo del porto d’armi ad Alessandro Vanni Calvello, indagato per associazione mafiosa; i contrasti interpersonali tra Contrada e i funzionari di polizia Cassarà, Montana e Montalbano; la conversazione e il successivo incontro con Antonino Salvo, indagato per associazione mafiosa e per l’omicidio del giudice istruttore Rocco Chinnici; la vicenda Ziino, in cui Contrada ebbe più incontri con Gilda Ziino, vedova dell’ing. Roberto Parisi, vittima di omicidio di mafia: il giorno stesso in cui fu ucciso Parisi e subito dopo il giorno in cui la vedova depose di fronte al giudice Giovanni Falcone; l’agevolazione della fuga da Palermo di Oliviero Tognoli, indagato per riciclaggio di denaro mafioso e fermato a Lugano.
Le parole dei collaboratori di giustizia, inoltre, gettano ancora più inquietudine sull’operato svolto da Contrada a partire dalla fine degli anni Settanta. Francesco Marino Mannoia e Angelo Siino riferiscono di incontri tra Stefano Bontade, allora capo di Cosa Nostra, e Contrada, per tramite, tra le altre cose, del Conte Arturo Cassina, imprenditore edile di Palermo; Salvatore Cancemi afferma di aver appreso da Pippo Calò (allora capomandamento di Porta Nuova) che Contrada era vicino a Bontade, anzi che, testualmente, il poliziotto era “in mano” a Bontade e a Rosario Riccobono, e che, alla fine della guerra di mafia, tutti i canali informativi istituzionali erano di fatto passati alla corrente corleonese; Tommaso Buscetta, per altro, giunto latitante a Palermo, era stato rassicurato della “tranquillità” della zona di Partanna-Mondello, in ragione di segnalazioni da parte di Contrada di eventuali operazioni di polizia; parole confermate anche da Rosario Spatola, che ricorda di aver visto Contrada e Riccobono ad un tavolo appartato di un ristorante di Sferracavallo; Giuseppe Marchese afferma addirittura di aver aiutato Totò Riina durante un trasferimento da un covo ad un altro, grazie ad una segnalazione di Contrada circa una perquisizione che sarebbe stata fatta nella sua zona di competenza. Ma è, forse, Gaspare Mutolo, nell’udienza del 21 febbraio 1996 durante il processo sulla strage di Via d’Amelio, a pronunciare le parole più pesanti: “[…] il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro […] e ci ripeto, diciamo, che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima io non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci “c’è questo pericolo, insomma, se si sa qualche cosa, qua, insomma, finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente […] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, riceve una telefonata, mi dice “sai Gaspare, debbi smettere perché mi ha telefonato il Ministro”, “va beh, dice, manco una mezzoretta e vengo” […]. Quindi manca qualche ora, 40 minuti, cioè all’incirca un ora e mi ricordo che quando è venuto, è tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io insomma, non sapendo che cosa… “dottore, ma che cosa ha?” e molto lui preoccupato e serio, mi fa che, viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada… mi dice di scrivere di mettere a verbale quello che gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto “guardi noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché” ci dissi “io… insomma a me mi ammazzano e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’organigramma mafioso”. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualsiasi cosa, che a me non mi interessa più. L’ultima sera che ci lasciamo con il dottor Borsellino è stato, mi sembra, il venerdì, dopo due giorni il giudice… salta in aria“.
Da un articolo di
Francesco Trotta – Cosa Vostra