Disonorate”. “Quando la mafia è nei guai chiama a raccolta le sue donne
E’ di pochi giorni fa, una operazione dei carabinieri, coordinati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta che ha portato all’arresto per i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, aggravato dal metodo mafioso, di tre donne che, durante la detenzione “gestivano le aziende familiari con polso fermo e deciso nel traffico di droga e nelle estorsioni, al posto del marito detenuto in carcere”.
Il ruolo delle donne nella gestione dei traffici propri della associazione mafiosa in assenza del marito detenuto non è un fatto nuovo. Un luogo comune ha imperato per anni: la mafia non coinvolge mai le donne nei propri affari. Siamo stati abituati a vedere in occasione di un omicidio di mafia, sulla stampa, nei telegiornali, nei film, le immagini di un uomo coperto da un lenzuolo e vicino a lui una donna piangente con la faccia tra le mani. Quella donna sapeva il nome di chi aveva ucciso il proprio congiunto ma mai lo avrebbe rivelato agli inquirenti. Eppure, Serafina Battaglia, convivente e madre di mafiosi, alla quale avevano ucciso il marito e il figlio, e che nel 1964 testimoniò contro la mafia, in una intervista rilasciata al giornalista Mauro De Mauro diceva: “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe da un pezzo…I mafiosi sono pupi. Fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d’onore ma pezze da piedi”.
Ricordo che in una indagine per un omicidio di mafia di cui mi occupai, venne collocata una microspia sulla tomba dell’ucciso. Ebbene in occasione di una visita alla tomba da parte della moglie, questa, in un colloquio immaginario con il marito, fece il nome dell’autore dell’omicidio consentendone così la identificazione.
Ha detto il pentito catanese Antonio Calderone : “A parte il fatto che molte mogli di uomini d’onore – quasi tutte quelle che ho conosciuto in verità- provengono da famiglie mafiose, hanno respirato l’aria di Cosa Nostra fin dalla nascita e conoscono perciò benissimo il modo di pensare e di fare di un mafioso, non bisogna dimenticare che la propria compagna finisce con l’intuire tutto, e quello che non riesce a dedurre da sola se lo fa dire dalle proprie amiche o dalle proprie sorelle e cognate, che spesso sono sposate anche loro con uomini d’onore…
In pratica non è facile tenere le donne all’oscuro delle proprie cose. Ogni famiglia di Cosa Nostra stabilisce regole e punizioni molto severe per chi rivela i fatti della mafia alla propria moglie, ma non so quanto sia possibile farle rispettare queste norme, Anche perché non è sempre facile trovare la prova di una infrazione prima che sia troppo tardi…Le donne palermitane poi, sono speciali. Fanno finta di non sapere, ma ne sanno più dei mariti.”
Molti anni prima la stessa convinzione aveva espresso Serafina Battaglia deponendo al processo per l’omicidio del figlio : “Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano e cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto”
Non vi è dubbio che Cosa Nostra non è soltanto un sistema criminale ma coinvolge anche la psicologia di chi vi è coinvolto e sin dall’infanzia il sentire mafioso ha origine nella famiglia nella quale la donna riveste una notevole importanza nella trasmissione dei modelli di quella cultura. Un mafioso di spicco, ricordava Pier Luigi Vigna, aveva affermato : “La donna ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Uomini come me sposano la donna adatta; la figlia di un uomo come me”. E ricordava sempre Pier luigi Vigna, che un uomo d’onore, al termine di un interrogatorio gli aveva chiesto : “Dottore, Lei pensa che mia figlia di tre anni sia mafiosa?” E alla risposta negativa del magistrato aveva detto : “Tuttavia noi già ora le insegniamo a non dire a nessuno chi viene a farci visita a casa, neppure se si tratta della nonna o di altro parente”.
Il rafforzamento della organizzazione mafiosa poi, avviene attraverso matrimoni opportunamente combinati e generalmente effettuati tra appartenenti a cosche mafiose.
A conferma di quanto riferito da Serafina Battaglia e da Calderone anche se una donna non si è mai seduta intorno al tavolo per partecipare alle riunioni tra esponenti mafiosi, tuttavia, di fatto, c’è sempre stata ugualmente. Ha infatti riferito un mafioso: “Sentono tutto ma non possono dire nulla. Le donne sono portatrici di segreti”.
Quando iniziò a manifestarsi il fenomeno della collaborazione, le donne dei mafiosi ruppero tuttavia il silenzio, manifestando pubblicamente sdegno e disprezzo nei confronti dei collaboratori di giustizia anche quando si trattava di propri congiunti. Così la moglie di un collaboratore di giustizia, appresa la notizia della collaborazione del marito, disse : “Lui (il marito) non è un pentito è un infame. La sera stessa quando ho saputo della sua collaborazione, ho preso tutti i suoi vestiti e li ho bruciati. Qui a casa non c’è più niente, neppure una camicia, neppure un fazzoletto” Ciò sta a dimostrare quanto la donna fosse intrisa della cultura submafiosa fino ad arrivare al punto di rinnegare il marito.
A seguito detenzione e della latitanza di numerosi esponenti anche di spicco della organizzazione mafiosa si è assistito ad una evoluzione del ruolo della donna in seno alla famiglia mafiosa. Quest’ultima infatti, come risulta da numerose sentenze oltre che da fatti di cronaca, ha assunto la direzione della cosca forte anche del fatto che , come riferito da un collaboratore, alcune di esse si sono inserite nelle professioni, nel tessuto sociale e “quindi oggi possono aiutare Cosa Nostra con la loro attività parallela”. La donna quindi da testimone silenziosa si è trasformata in spregiudicata imprenditrice.
Malgrado quindi la struttura apparentemente rigida della mafia, si è andato affermando ed emergendo sempre di più, un ruolo significativo delle donne, non solo come trasmettitrici della cultura mafiosa in seno alla famiglia, ma anche nella gestione dell’attività delle cosche e ciò a partire dagli anni 90 quando le prime donne, mogli, madri, amanti di mafiosi iniziarono a collaborare mostrando di essere a conoscenza di molte cose della organizzazione mafiosa.
Ma il coinvolgimento di donne in crimini mafiosi risale a molti anni prima degli anni 90.La prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata Maria Catena Cammarata, impiegata all’ufficio postale del suo paese, Riesi. I giudici di Caltanissetta che l’anno condannata a sei anni e sei mesi di reclusione accertarono che la Cammarata, dopo che i suoi fratelli Pino e Vincenzo si erano dati alla latitanza, era diventata a tutti gli effetti la “reggente della famiglia”. Dopo la condanna, proprio come un vero boss, non ha mai dato segni di cedimento.
Esempio più recente di donna coinvolta nelle attività mafiose è dato da Anna Patrizia Messina Denaro, sorella del noto latitante Matteo Messina Denaro, condannata il 31 marzo 2015 a 13 anni dal Tribunale di Marsala, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nella sentenza venne riconosciuto alla Messina Denaro un ruolo di primo piano “nello strategico comparto della comunicazione tra il vertice del mandamento di Castelvetrano e la cosiddetta provincia”, e di anello di collegamento tra il fratello “e il cosiddetto circuito penitenziario”. In particolare, secondo i giudici, la Messina Denaro favoriva i contatti tra il marito Vincenzo Panicola, già in carcere, e il boss latitante.
La Corte di Cassazione, nel rigettare l’istanza di concessione degli arresti domiciliari, osservava come : “il rientro dell’imputata nel proprio (o in altro domicilio), consentirebbe a Matteo Messina Denaro di utilizzare nuovamente la sorella come canale di collegamento tra sé ed altri soggetti mafiosi “e ciò avvalendosi di “forme e metodi di comunicazione assai riservati e protetti” che sarebbero favoriti dagli arresti domiciliari.
La Messina Denaro comunicava con il fratello non attraverso “pizzini” ma attraverso la chat del noto social network, Facebook dove la donna aveva aperto una serie di profili-tutti con nomi e foto false- il che le consentiva di parlare con il boss latitante senza essere intercettata.. Qualche giorno prima dell’arresto cancellava improvvisamente tutti i messaggi e tutti i profili falsi. E’ fondato sospettare che la stessa abbia ricevuto un soffiata che la indusse a cancellare ogni traccia delle conversazioni con fratello. I giudici californiani hanno dato parere positivo alla rogatoria inviata dalla Procura di Palermo con la quale si chiedeva di conoscere tutti i file provenienti dai falsi profili utilizzati da Anna Patrizia Messina Denaro.
Fonte: Sicilia Informazioni, A. Di Pisa