Palermo, ricordati il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso
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Uccisi per volere del Capo dei capi, Palermo omaggia Terranova e Mancuso
Il giudice e il maresciallo furono assassinati dalla mafia 38 anni fa in un agguato in via De Amicis. Per il loro omicidio sono stati condannati Totò Riina, Michele Greco, Nenè Geraci e Francesco Madonia. Il ricordo di Orlando
Entrato in magistratura nel 1946, subito dopo la fine della guerra, esercitò prima come pretore a Messina e poi a Rometta. Nel 1958 si trasferì dal Tribunale di Patti a quello di Palermo, dove avviò i primi grandi processi di mafia contro Luciano Leggio e gli altri boss mafiosi di Corleone. Da palermitano, infatti, Terranova, aveva capito la crescente pericolosità della nuova leva di “viddani” che avevano sterminato Michele Navarra e i suoi fedelissimi, prendendone il posto; capì anche la trasformazione della mafia siciliana, che dal feudo si spostava sulle opportunità di speculazione edilizia offerte dalle città. Fu il primo magistrato a mettere per iscritto nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio del 10 dicembre 1969 che gli amministratori comunali di allora rappresentavano in centro propulsore della nuova mafia[1].
Procuratore d’accusa nel processo di Bari contro Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella, nel 1969 venne sconfitto da una sentenza di assoluzione per quasi tutti gli imputati: la forza della repressione giudiziaria dello Stato esplosa dopo la Strage di Ciaculli era già finita.
Deputato del PCI
Eletto come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano alla Camera dei Deputati nel 1972, vi restò fino al 1979; membro della Commissione Parlamentare Antimafia della VI legislatura, firmò insieme a Pio La Torre la relazione critica di minoranza in cui venivano evidenziati i rapporti tra mafia, politica e imprenditoria, in particolare con esponenti di spicco della Democrazia Cristiana, come Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e Salvo Lima.
Dopo l’esperienza parlamentare, Terranova tornò in magistratura per essere nominato Consigliere presso la Corte di appello di Palermo.
L’omicidio
Cesare Terranova, dopo l’agguato
La mattina del 25 settembre, verso le 8:30 del mattino, il magistrato si mise alla guida della sua Fiat 131, con a fianco la sua guardia del corpo, il maresciallo Lenin Mancuso. Imboccando la solita strada secondaria per giungere al tribunale, la trovarono chiusa per lavori in corso: fu in quel momento che l’auto venne affiancata dai killer che aprirono il fuoco con una carabina Winchester e pistole. Il magistrato ingranò la retromarcia nel tentativo di sottrarsi ai proiettili, mentre il Maresciallo Mancuso estrasse la Beretta di ordinanza per rispondere al fuoco. Terranova morì sul colpo, Mancuso poche ore dopo in ospedale.
Il Cardinale Salvatore Pappalardo, nell’omelia durante i solenni funerali, disse: “Sappiamo bene che non sono possibili soluzioni semplicistiche e immediate. Il male è talmente profondo e incarnato che le sue velenose radici affondano in un terreno dove si intrecciano da secoli… torbidi interessi, espressioni dell’egoismo e della prepotenza umana, disancorata da ogni visione morale e religiosa della vita”[2].
Le indagini e i processi
Alle 9:15 il duplice omicidio venne rivendicato dall’organizzazione fascista Ordine nuovo, con una telefonata anonima a un quotidiano romano, ma gli inquirenti rimasero convinti della matrice mafiosa dell’attentato. Secondo l’amico e scrittore Leonardo Sciascia, Terranova fu ucciso perché “stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo”[3]. Ciononostante, dalle carte e dai dossier presenti nell’Archivio del magistrato messi a disposizione della moglie, Giovanna Giaconia Terranova, non emerse nulla.
Le prime importanti dichiarazioni sull’omicidio del magistrato arrivarono nel 1984 con la collaborazione di Tommaso Buscetta, che rivelò a Giovanni Falcone come il magistrato fosse diventato un obiettivo già nel 1975 per essere riuscito ad ottenere la condanna all’ergastolo di Liggio e per il suo attivismo in Commissione Antimafia.
Anche Francesco Di Carlo, esponente del mandamento di San Giuseppe Jato e uomo di fiducia di Bernardo Brusca, riconobbe Liggio come mandante dell’omicidio e come esecutori materiali: Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. Nel 1997 venne riaperto il procedimento contro altre sette persone, esponenti della cupola palermitana, che diedero il permesso di eliminare il giudice che stava per diventare giudice istruttore nella commissione antimafia: Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Totò Riina e Bernardo Provenzano[4