Via D’Amelio.
La trattativa Stato-Mafia e la morte di Paolo Borsellino
Non si può onorare veramente la sua memoria fino a quando non si chiarirà ogni cosa
Secondo i pm del processo di Palermo, all’inizio degli Anni Novanta ci fu una trattativa tra Mafia e Stato italiano per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell’attenuazione delle misure detentive. Tutto partì all’indomani della sentenza del Maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decise di eliminare gli amici traditori e i grandi nemici. Nel giro di pochi mesi caddero Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo. Ma per i magistrati, oltre alla vendetta nelle intenzioni di Cosa Nostra ci fu anche quella di ricattare lo Stato: una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni.
Calogero Mannino, uno dei politici finiti nel mirino dei mafiosi, si rivolse al generale Subranni (comandante dei Ros) per essere protetto. E qui sarebbe partita, per iniziativa dei Carabinieri, una lunga negoziazione. Borsellino sarebbe stato ammazzato anche per la sua volontà di ostacolare questi contatti. A detta dell’accusa, la trattativa proseguì anche oltre l’arresto di Totò Riina nel ’93, e visse uno dei suoi momenti più drammatici col fallito attentato dello stadio Olimpico nel novembre dello stesso anno (per cui saranno arrestati i fratelli Graviano). In quel periodo, la mancata proroga di circa 300 regimi di 41 bis a detenuti mafiosi (ma non a personaggi di spicco) rappresenterebbe una prova del cedimento da parte dello Stato. Stesso discorso per la fuga di Provenzano nel ’95.
I preludi della trattativa: il Maxiprocesso e l’omicidio Lima
Secondo quanto ricostruito dalla tesi accusatoria, la trattativa affonda le proprie radici nel gennaio del ’92, quando la Corte di Cassazione decise di confermare le condanne a carico degli imputati del maxiprocesso istituito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A seguito di ciò, Cosa Nostra si trovò improvvisamente senza referenti politici: la Dc, che aveva promesso di intervenire per “aggiustare” le sentenze, rivestì i panni di traditrice, e l’organizzazione criminale iniziò a meditare vendetta, progettando la stagione stragista che s’inaugurò nel marzo successivo: il primo a perdere la vita fu, il 13 di quel mese, l’europarlamentare democristiano Salvo Lima. Spiegheranno anni dopo i pentiti, che il vero bersaglio era Andreotti, ma era inaccessibile: si decise così di ripiegare sull’esponente di spicco della corrente andreottiana in Sicilia per inviare un messaggio. Nel periodo appena successivo, Calogero Mannino, anch’egli democristiano, fu minacciato di morte da Cosa Nostra e si rivolse all’allora capo del Ros Antonio Subranni, temendo per la propria vita.
Falcone e Borsellino: due morti che camminano
Il vero spartiacque, però, si ebbe il 23 maggio del ’92: allo svincolo di Capaci dell’autostrada A29, duecento chili di tritolo ammazzarono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre ragazzi della scorta. Al carcere Ucciardone di Palermo, i detenuti mafiosi esultarono, e collaboratori di giustizia rivelarono successivamente come la strage fosse stata ideata, oltre per evitare che il magistrato fosse eletto alla Superprocura Antimafia, anche per sfavorire l’elezione a Capo di Stato del “traditore” Giulio Andreotti. Il 25 maggio, i grandi elettori dirottarono le proprie preferenze a Oscar Luigi Scalfaro, che diventò Presidente della Repubblica.
Tre giorni dopo, il 28 maggio, Paolo Borsellino fu, di fatto, condannato a morte: in occasione della presentazione di un libro, il ministro Vincenzo Scotti lo candidò pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia, proprio là dove avrebbe dovuto sedere Falcone. Il collaboratore di giustizia Calogero Pulci, racconterà anni dopo che, la sera di quello stesso giorno, si trovava a cena con altri mafiosi quando il Tg trasmise le immagini della conferenza stampa di Scotti e Martelli. All’udire le loro parole, Piddu Madonia avrebbe esclamato: “E murì Bursellinu”.
“E’ arrivato il tritolo per me”. La strage di Via d’Amelio
Il 13 luglio del 1992 Borsellino parla con un poliziotto della scorta e gli confida: “Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi”. 3 giorni dopo, un confidente racconta ai Carabinieri di Milano che si preparano due attentati: obiettivi Paolo Borsellino e Antonio Di Pietro. Il Ros invia l’informativa a Palermo, ma per posta ordinaria: la missiva giunge in Procura dopo il 19 luglio. Il 17 luglio Borsellino incontra a Roma il capo della Polizia Vincenzo Parisi e chiede un rafforzamento della propria scorta.
Lo stesso giorno si reca in Procura a Palermo, dove saluta i colleghi uno per uno: un addio. Quando rientra a casa i familiari lo vedono nervoso. Il giorno prima, nell’ultimo interrogatorio a Gaspare Mutolo, il pentito gli ha detto di voler verbalizzare le accuse a Contrada e al magistrato Domenico Signorino, che si toglierà la vita pochi mesi dopo.
Il 19 luglio, alle 16.58, una Fiat 126 rubata imbottita con circa 90 chilogrammi di esplosivo telecomandati a distanza, esplode in via Mariano D’Amelio 21, sotto il palazzo in cui vive la madre del giudice. E’ domenica. Borsellino è andato a trovare la madre. Si avvicina al citofono, il boato. L’agente sopravvissuto Antonio Vullo descrisse così l’esplosione:
“Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto”.
Agenti di scorta dichiararono che via D’Amelio era considerata una strada pericolosa in quanto molto stretta, tanto che, come rivelato in una intervista rilasciata alla Rai da Antonino Caponnetto, era stato chiesto alle autorità di Palermo di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, richiesta rimasta però senza seguito.
Insieme al giudice Borsellino morirono i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.
Il processo sulla Trattativa
Sono dieci gli imputati davanti alla corte d’Assise di Palermo. Quattro capi mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano (deceduto il 13 luglio 2016), Antonino Cinà e Leoluca Bagarella. Un pentito, Giovanni Brusca. Tre carabinieri: il generale Antonio Subranni, il capitano Giuseppe De Donno, il colonnello Mario Mori. E due politici, Calogero Mannino (processato a parte col rito abbreviato e assolto) e Marcello Dell’Utri. Su di loro pendono vari capi d’accusa, tra cui quello di attentato con violenza o minaccia al corpo dello Stato. A questi si aggiungono Massimo Ciancimino, uno dei teste principali dell’accusa che risponde anche di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia, e Nicola Mancino, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti e accusato di falsa testimonianza.
Si parla di una trattativa fino alle porte degli Anni Duemila, ma il periodo circoscritto nel procedimento è quello tra il 1992 e il 1993.
I testimoni chiave
L’impianto accusatorio si basa per gran parte sulle testimonianze di Massimo Ciancimino (figlio di Vito) e Giovanni Brusca.
Ciancimino ricostruisce tutti gli incontri fra i carabinieri e il padre: secondo i militari solo per ottenere collaborazione nella cattura dei latitanti, secondo l’accusa per mettere in piedi una trattativa a 360 gradi. Brusca invece è il primo a parlare del cosiddetto «Papello», la lista di richieste di Totò Riina allo Stato; ed è sempre Brusca ad avere indicato il ministro Mancino come terminale ultimo degli accordi.
I limiti di queste testimonianze sono nel fatto che Ciancimino, nell’ambito dello stesso processo, risponde dell’imputazione di calunnia per aver falsificato un documento sull’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Mentre i ricordi di Brusca sono «progressivi»: la sua storia si è evoluta nel corso degli anni e degli interrogatori.
Il conflitto tra le procure
Il processo sulla «Trattativa» è di competenza di Palermo, mentre Caltanissetta indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Fra le due procure, però, non corre buon sangue e non c’è una linea comune. Proprio da Caltanissetta arrivano alcune delle obiezioni principali all’impianto accusatorio: secondo questa Procura, infatti, i politici non sarebbero stati coinvolti nei contatti, iniziativa personale dei Carabinieri. E Massimo Ciancimino, teste chiave per i magistrati palermitani, sarebbe invece del tutto inattendibile. Su questo conflitto cercherà di fare leva Nicola Mancino per evitare di essere coinvolto nel procedimento.
Il ruolo di Giorgio Napolitano
Nicola Mancino era all’epoca dei fatti ministro dell’Interno. Preoccupato di essere tirato in ballo nel processo, l’ex Guardasigilli fra il novembre del 2011 e il dicembre del 2012 telefona ripetutamente a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, per cercare di far attivare il coordinamento dell’antimafia nazionale (diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato) sulle due procure siciliane. Nell’ambito di questi contatti ci sono anche delle telefonate dirette fra Mancino e il presidente della Repubblica. La procura chiede di depositare agli atti le intercettazioni, ma trova l’opposizione del Quirinale, che chiede (e ottiene dalla Consulta) il conflitto istituzionale.
I magistrati palermitani tornano però alla carica perché in una lettera D’Ambrosio (deceduto nel 2012) scrive di aver paura di essere stato “scriba di accordi indicibili” . La Procura vuole sapere se Napolitano ha avuto modo in quei contatti di apprendere qualcosa sulla trattativa. Il presidente della Repubblica, nonostante abbia affermato di non essere a conoscenza di nulla, accetta di testimoniare. Il capo dello Stato risponde per tre ore alle domande dei pubblici ministeri e dell’avvocato di Totò Riina, senza mai avvalersi delle sue prerogative di riservatezza. Il 31 ottobre viene depositata la trascrizione della deposizione resa dal presidente.
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