Angelo Siino nacque a San Giuseppe Jato (Palermo) il 25 marzo 1944. Pentito, a suo tempo mafioso. Mafioso da parte di madre, figlia del boss Giuseppe Celeste (ucciso nel 1921). Consigliere comunale della Dc a San Giuseppe Jato, poi imprenditore (la ditta di famiglia), infine massone, cooptato da Stefano Bontate nella loggia Camea, col grado 33. Ma non affiliato alla mafia («sono stato legato a Cosa Nostra da un lungo sodalizio, ma non sono un uomo d’onore. Pungiuta, giuramento, patto di sangue… non mi hanno mai affascinato»). Amico anche di Giovanni Brusca. Per la mafia teneva i contatti con i politici, specialmente con Salvo Lima. In provincia di Trapani era amico di tanti potenti. Da trapani a Castelvetrano trovava sempre un accordo per fare soldi con gli appalti.
Dietro l’operazione delle fognature Saiseb di Marinella di Selinunte c’era Lui che aveva forti radicamenti con la cosca e la politica di Castelvetrano. L’operazione Saiseb a Castelvetrano si completò nel 1994 e ancora il comune paga un contenzioso. Le tante indagini non hanno mai chiarito chi fossero i punti di riferimento politici di Siino a Castelvetrano. Era emissario di Riina e in primis doveva togliere ogni preferenza a Don Ciccio e a Matteo Messina Denaro e successivamente incontrare imprenditori, politici e burocrati. Siino, secondo alcune relazioni dei Carabinieri dell’epoca aveva imposto alcuni dipendenti alla Saiseb che lavorava alle nuove fognature di Marinella e anche alcuni tecnici. Chi suggerì questi nomi?
Il rapporto di Siino con Castelvetrano è tutto da decifrare
Il 23 marzo 2015, Attilio Bolzoni e Francesco Viviano sul quotidiano La Repubblica, parlarono anche di un dossieraggio contro Antonello Montante, e di una sospetta intercettazione o registrazione anonima, captata con sofisticati congegni, e finalizzata a mettere nei guai il leader dell’antimafia dentro Confindustria. Il quale aveva creato una società con la figlia di Camelo Patti: per il suo prestigio indiscusso di industriale non mafioso e patron della Valtur, che voleva comprarsi Città del Mare. Venendo perciò in contrasto con la Bertolino e venendo subito dopo rovinato dalle accuse di Siino e della cognata dopo avere dichiarato che non avrebbe costruito due villaggi turistici tra Selinunte e Campobello di Mazara, dove la Bertolino voleva costruire un’altra megadistilleria.
La sua abilità corruttiva fu talmente strategica che fu oggetto di studio anche all’Università di palermo
Siino, riesce a far guadagnare molti soldi ai mafiosi accontentando politici e burocrati
Metodo Siino” («un metodo simile al mestiere più antico del mondo, quello delle signore che battono»): in pratica gestisce i lavori pubblici, organizzando i cartelli tra gli imprenditori, che si mettono d’accordo sull’ammontare di ciascuna offerta nelle gare d’appalto in modo da vincere a rotazione (per l’aggiudicazione erano sufficienti ribassi minimi, anche dello 0,50 per cento). Su ogni opera pubblica era imposta una mazzetta del 4,5 per cento (di cui il 2 per cento andava alla mafia, altrettanto ai politici, e lo 0,50 agli organi di controllo). Secondo Siino prima le mazzette erano prese solo dai politici. «Io mi ricordo che ci fu il fatto che i mafiosi dicevano a un certo punto meravigliandosi: “Si fregano il 3%, il 5% e noi dobbiamo stare qui a guardare, ma siamo pazzi, ma come, ma questi sono più ladri di noi, noi che stiamo a rischiare col fucile in mano e questi che stanno dietro a una scrivania”». Con questo lavoro si guadagna il titolo di ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra.
Tesi universitaria
La regolazione mafiosa del sistema degli appalti: dai cartelli “autarchici” al metodo Siino
La collusione tra produttori, presente in molti rami di attività economica, è particolarmente frequente nel settore degli appalti pubblici: “Rispetto ai consumatori privati, le istituzioni pubbliche sono in numero minore, fanno contratti a lungo termine, sono in genere poco sensibili alla qualità, indifferenti ai prezzi e corruttibili. In breve, esse possono essere facilmente spartite” (Gambetta e Reuter 1995, 117). Per lungo tempo il coinvolgimento della mafia siciliana nel settore degli appalti è rimasta circoscritta alla fase successiva all’aggiudicazione della gara. Originariamente l’organizzazione mafiosa si è limitata alla semplice riscossione della “guardianìa”.[1] Quindi è cominciata l’esazione del pizzo o “messa a posto”, consistente nel pagamento di un prezzo per la protezione, del tutto analoga a quella incassata per altre attività economiche, e la partecipazione di imprese protette dalla mafia al sistema dei lavori in subappalto. [2] Si tratta di un modello di interazione [1] Si tratta dell’assunzione (in qualche caso fittizia) di un membro della famiglia mafiosa come guardiano, una forma velata di estorsione già esistente oltre un secolo fa, come riporta il barone Leopoldo Franchetti nella sua famosa inchiesta del 1876 sulle “Condizioni politiche ed amministrative della Sicilia”.
[2] Il pizzo, secondo Giovanni Brusca, corrisponde al “cosiddetto 3%, che poi era 2-2.50-1.50” (TPGB 120). Come osserva il collaborante Antonino Giuffré, “Le messe a posto (…) consistono che nel momento in cui un’impresa si aggiudica un lavoro, prima di andare a mettere mano appositamente al lavoro stesso, si deve mettere a posto, sta a significare di andare a cercare una persona che risponde per l’impresa stessa, che garantisca che alla fine o durante il lavoro pagherà la tangente alla zona in cui l’impresa fa il lavoro”
mafia-imprese definito dai magistrati come “parassitario”, dal momento che, al di là della protezione nei confronti di altre richieste estorsive, furti o danneggiamenti, il prezzo pagato ai mafiosi non si estende ad altre prestazioni, né alla regolazione dei meccanismi di aggiudicazione.[1] Il frazionamento territoriale della riscossione rispecchia abbastanza fedelmente l’area di influenza delle diverse famiglie mafiose, salvo occasionali conflitti nelle zone d’incerta competenza.[2]
Naturalmente, al pari di quello che accade in altre realtà territoriali, anche in Sicilia gli imprenditori hanno continuato a imbastire autonomamente, spesso al riparo di un ombrello di protezione politica o burocratica, accordi collusivi per disciplinare l’accesso alle risorse stanziate con gli appalti.[3] Negli accordi di cartello, tuttavia, si presentano condizioni che favoriscono la formulazione di una genuina domanda di protezione: l’elevato surplus ricavabile dalle intese collusive, infatti, è controbilanciato dagli alti costi di informazione, di coordinamento e di garanzia di adempimento, che accrescono l’incertezza sui “diritti” scambiati. Di qui l’importanza della relazioni fiduciarie basate sulla durata dei rapporti e sulla reputazione. Nelle gare di appalto gli imprenditori devono coordinare le proprie offerte in modo da escludere il rischio di intrusioni da parte di concorrenti potenziali, sempre possibili dato la tendenziale apertura delle procedure. Per questo il cartello si fonda su precise regole di spartizione, tra cui il criterio territoriale, quello dei turni o dei clienti. Ma questo non elimina i problemi. In primo luogo, trattandosi di uno scambio illecito, vi sono difficoltà nel reperire e trasmettere informazioni attendibili, da cui scaturiscono problemi addizionali di coordinamento dovuti alle precauzioni necessarie nelle comunicazioni. Tuttavia, una volta che si sia raggiunta un’intesa, questo non elimina gli incentivi alla slealtà. L’accordo collusivo, infatti, si fonda su promesse: l’impresa x accetta oggi di non partecipare, o di concordare le offerte, a favore dell’impresa beneficiaria y, in cambio dell’impegno di quest’ultima di contraccambiare in futuro. L’impresa y, però, domani potrà “dimenticarsi” di ricambiare il favore ricevuto, senza che l’impresa x abbia la possibilità di pretendere l’adempimento davanti a un giudice. Il costo che x può imporre a y per sancire i suoi “diritti” violati discende dall’interruzione dei rapporti di cooperazione con l’impresa traditrice, dalla diffusione di informazioni sulla sua inaffidabilità e dalla “sanzione sociale” consistente nell’esclusione dal cartello. Se questi fattori sono un deterrente abbastanza forte, il cartello può resistere nel tempo indipendentemente dall’intervento di una terza parte. Le condizioni che facilitano la riuscita del cartello, come dimostra un’abbondante letteratura, sono il numero limitato di imprese partecipanti, l’esteso orizzonte temporale con cui queste guardano ai loro rapporti, l’elevata frequenza degli scambi, l’esistenza di efficaci canali di circolazione delle informazioni.[4]
Tra gli elementi facilitanti si può aggiungere anche la possibilità di condizionare le scelte degli amministratori pubblici che sovrintendono la procedura, allacciando rapporti di scambio corrotto. La protezione politico-burocratica facilita direttamente la riuscita del cartello, da un lato ostacolando l’accesso di concorrenti esterni (tramite la predisposizione di artificiose griglie di sbarramento nei bandi, con il passaggio di informazioni riservate sui tempi e sui criteri di aggiudicazione, ecc.),
[1] Alcuni uomini d’onore, peraltro, avevano manifestato un interesse nel settore degli appalti prima dell’estendersi dei meccanismi di regolazione mafiosa all’intera procedura. Uno di questi è Bernardo Provenzano, che agiva mediante prestanome, mentre altri mafiosi gestivano in prima persona le imprese partecipanti agli appalti (TPGB, 23).
[2] “In questa fase, prima dell’esito conclusivo della guerra di mafia, il rapporto con il mondo imprenditoriale e con il mondo dell’economia rifletteva quello che era il frazionamento interno dell’organizzazione e quindi il più delle volte si esauriva nella ristretta cerchia della competenza territoriale delle varie famiglie. Sostanzialmente il sistema attraverso cui le varie famiglie mafiose si inserivano per cercare di ottenere vantaggi dall’effettuazione di lavori pubblici nei propri territori era un sistema improntato ad una logica di sfruttamento per così dire parassitario. La famiglia competente per territorio imponeva nel proprio spazio di sovranità varie forme di taglieggiamento agli imprenditori, il pagamento della tangente, l’imposizione del subappalto, l’imposizione delle guardianie, l’imposizione e il monopolio delle forniture necessarie all’esecuzione dell’appalto” (TPCG, 18).
[3] Cfr. della Porta e Vannucci (1994) e Vannucci (2005) per un’analisi di numerosi esempi di questo tipo.
[4] Si tratta di un problema che, secondo l’approccio della teoria dei giochi, può essere formulato in termini di condizioni facilitanti l’emergere di un equilibrio in strategie di cooperazione condizionata in un gioco del dilemma del prigioniero ripetuto tra n giocatori.
Fonte : Documenti, T.J
Il Circolaccio
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