Fu accusata di irresponsabilità di fronte al fascismo, quando non di complicità, era già cominciato subito dopo la caduta del regime. Si distinse per la durezza della requisitoria soprattutto di un intellettuale marxista: Fabrizio Onofri che su Rinascita del 1944 espresse una condanna senza attenuanti contro la letteratura del ventennio.” Gli anni che seguirono la fine della Seconda guerra mondiale riaprirono forte il dibattito sulla condizione sociale degli italiani. Non si erano placate le riflessioni letterarie di Gramsci e le sue denunce sulla “miseria delle plebi nel Mezzogiorno, sullo sfruttamento inumano degli operai delle fabbriche e dei braccianti agricoli, sull’avvilimento degli avventizi, sulle sofferenze quotidiane delle donne.” È il tempo della maturazione delle discussioni sul “concetto di realismo” e la sua applicazione alle varie arti. Come si sa il termine “Neorealismo” era stato già usato negli anni Trenta a proposito degli scrittori “Contenutisti”. Dopo la guerra la tendenza fu quella di rappresentare la realtà arricchendosi di istanze politiche e sociali e, sotto l’influenza del cinema, di critica di costume. Chi non ricorda, ad esempio i film “Paisà” e “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica e ancora i film di De Santis, Visconti e Lizzani. Alla stessa realtà del cinema neorealista volle ispirarsi la pittura di Domenico Guttuso e di Domenico Purificato. In letteratura fu il momento di una serie di testi che andava dai cosiddetti documenti di esperienze belliche e narrative saggistiche come il fortunatissimo “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi. All’inizio degli anni Cinquanta questa fase della produzione letteraria neorealistica incominciò a esaurirsi. Il fronte compatto della cultura di sinistra cominciò a scomporsi dal 1956 dopo il “disgelo” promosso da Krusciov in URSS e la diaspora prodotta dall’intervento sovietico in Ungheria. Nei primi anni Ottanta, con la forte ripresa produttiva, la stabilità dei governi social-democratici e il progressivo ritrarsi del fenomeno terroristico corrisposero un immobilismo e una mancanza di proposta politica del Partito comunista e che ridusse la cultura italiana in una sorta di “sopore”. È anche il tempo in cui si avviavano a compimento le grandi concentrazioni editoriali e l’esplosione di una pubblicistica sempre più prolifica. Un sintomo di maggiore vitalità si manifestò soprattutto tra gli editori minori, sparsi su tutto il territorio nazionale, i quali però ebbero vita breve e difficile. Nei due decenni tra il Settanta e l’Ottanta si innestò la crisi delle ideologie e s’incominciò a parlare di “postmodernità”. Il postmoderno si configurò come l’avvio di una crisi epocale della ragione e mettendo in forse quell’idea di progresso cara a tutti gli storicismi. Il risultato fu un’arte caratterizzata da una evidente mancanza di profondità.
By Riccardo Alfonso dal “Novecento storie del mio tempo”