L’abolizione della prescrizione è controproducente e dannosa. E colpirà i cittadini anonimi». Intervista a Gian Domenico Caiazza (Unione camere penali)
Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di” Tempi”.
Secondo le statistiche fornite dal ministero, circa il 75 per cento delle prescrizioni matura prima di una sentenza di primo grado. Di conseguenza la riforma avrà un impatto minimo, solo sul 25 per cento dei procedimenti che finiscono con la prescrizione dei reati.
«Con la riforma della prescrizione si sancisce in modo formale un principio barbarico, cioè che il cittadino debba rimanere in balìa della giustizia penale, sia come imputato che come persona offesa del reato, fino a quando e se lo Stato avrà modo di definire la sua posizione processuale. Il processo in Italia ha già una durata irragionevole, quasi il doppio dei tempi medi europei. Intervenire sulla prescrizione piuttosto che sulle cause della durata dei processi è qualcosa di strabiliante che solo in un paese impazzito può accadere». Intervistato da Tempi, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi), l’organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti, non usa mezzi termini nel denunciare le conseguenze della riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio 2020.
La norma, voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (e approvata da M5s e Lega nel dicembre 2018), prevede l’abolizione di fatto della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. In altre parole, una volta superato il primo grado di giudizio, i processi in Italia potranno durare anche 50 anni, costringendo i cittadini a rimanere impigliati nelle maglie della giustizia per tutta la vita.
Il ministro Bonafede ha affermato più volte che la riforma della prescrizione, applicandosi ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore, produrrà i suoi effetti solo tra tre o quattro anni, permettendo quindi di approvare nel frattempo una legge che possa velocizzare i tempi del processo. È così?
Non è così, perché basterà un rito direttissimo e una sentenza emessa per un reato commesso dopo l’entrata in vigore della legge per averne immediata vigenza. Ad ogni modo, mi sembra veramente singolare questo modo di ragionare: si introduce una riforma, se ne riconosco gli effetti deleteri (perché si afferma che bisogna intervenire sui tempi del processo), ma si rassicura sostenendo che gli effetti si vedranno tra diversi anni. Questa cosa non ha nessun senso, se non quello di fissare una bandierina giustizialista: “Abbiamo sconfitto i furbi della prescrizione”. Il diritto è un complesso sofisticato di regole e di princìpi. Se si spazzano via regole e princìpi, i danni sono enormi, a prescindere dalla tempistica.
Questo dimostra l’irrazionalità dell’intervento. I numeri si commentano da soli e soprattutto sbugiardano la vulgata che giustifica la riforma, e cioè che la prescrizione sia lo strumento dei potenti e dei furbi, che si possono permettere i grandi avvocati per guadagnare tempo e salvarsi la pelle. Non c’è un istituto più interclassista e popolare della prescrizione. Se si prendono in considerazione solo quaranta casi, come fanno Marco Travaglio e Peter Gomez nel loro libro La Repubblica degli impuniti, citando ad esempio Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi o altri, e non si dice che ad aver usufruito della prescrizione sono stati centinaia e centinaia di migliaia di cittadini, si stravolge il senso delle cose.
La riforma è in contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata dei processi?
C’è sicuramente un profilo di incostituzionalità. Lo hanno confermato centocinquanta docenti di diritto penale, procedura penale e costituzionale che hanno sottoscritto un nostro appello al capo dello Stato già in sede di promulgazione della legge. Si tratta di un fatto eccezionale, se si considera che l’accademia difficilmente si sbilancia. Il profilo di incostituzionalità fu urlato da coloro che questa materia la studiano e la insegnano. Ma è il paradosso di questo paese: la conoscenza e la competenza sono un demerito e vanno ignorate.
Gian Domenico Caiazza