Messina Denaro sta sempre più male. Sa bene che la sua malattia è tremenda.

Da quello che i Pm di  Palermo hanno fatto sapere Il boss , nonostante la grave malattia, continua a giocare con le parole e con gli enigmi. Si sente furbo e intelligente. E a suo modo e maniera ha dimostrato anche  di esserlo. In questo blog abbiamo ricostruito spesso tratti di storia giudiziaria.   Senza pavoneggiarci, come sono soliti fare i giornali dell’antimafia salottiera.

 Lu siccu continua il gioco  del “Ti viu e un ti viu” . Sa bene che dentro le istituzioni ha ancora amici. Non parla per convenienza e non per credo mafioso.  Una traccia comunque va tenuta in evidenza. E’ quella dei reperti archeologici . Un mercato sporco che ha fruttato miliardi di lire almeno fino all’arrivo dell’Euro. Per almeno 30 anni hanno fatto quello che volevano con Selinunte e Timpone Nero.  Il boss stesso lo dice: “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte”, spiega parlando di Francesco Messina Denaro, padrino  morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi. E aggiunge : “Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte.”  I soldi sono arrivati da Li ma anche dai grandi appalti del terremoto del 68  e dell’autostrada A29 . Caterve di miliardi che hanno tutti ben nascosto E sulla cattura ha le idee chiare: “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’ arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia” .Francesco E Matteo Messina Denaro erano molto ignoranti dal punto di vista archeologico. Cosai come lo erano i tanti marinai selinuntini che si trasformavano in tombaroli per portare più soldi a casa. Lo sapevano tutti Eppure, per decenni tutti chiusero gli occhi. I Messina Denaro furono istruiti ad arte dalla borghesia intellettuale anche castelvetranese che partecipò o forse partecipa ancora al “magna -magna”. Nessuno sa con certezza il vero valore dei beni “fottuti” a Selinunte. Pezzi rari e venduti in tutto il mondo. Altro che droga. Infatti, come confermato da alcuni pentiti: I Messina Denaro dissero , “No” ad attentati a Selinunte durante la fase stragista del 92. Nessun amore per l’arte ma solo tutela dei loro interessi

Le bombe a Selinunte avrebbero danneggiato  il ricco mercato  dei reperti  rubati e messo in evidenza tutti i furti effettuati dal dopo guerra da parte dei tombaroli. Il rischio di rompere la filiera con la Svizzera e gli Stati Uniti era enorme

Secondo attente informative dei Carabinieri, già negli anni 60, Don Ciccio Messina Denaro, aveva messo le mani su questo traffico illecito. Il patriarca mafioso  non aveva ” scuole” e qualcuno lo formò. Gli spiegò come fare denari con “li bacareddi”. Presto si mise a capo dei tombaroli manovali locali. Tutto il ritrovato doveva passare da Lui e dai suoi amici mercanti che li posizionavano sui mercati esteri.  Don Ciccio non capiva nulla d’arte antica. Si faceva “consigliare”da qualche intellettuale locale .Il danno arrecato alla comunità selinuntina  e alla sua storia è incalcolabile. Uno storico tedesco disse anni fa:” Se a Selinunte tornassero tutti i reperti rubati  negli ultimi 30 anni ,si  dovrebbe costruire  un museo più grande di un  campo di calcio” . Anche la zona delle Cave di Cusa e di “Timpone Nero” fu saccheggiata. Di molte opere non sappiamo nulla. Migliaia di reperti  ritrovati dai Carabinieri in Svizzera, stanno tentando di classificarli. Potrebbero essere anche  di Selinunte

La filiera delle “bacareddi”( cosi li chiamava la gente del luogo)  portava soldi  a quintali e non solo alla famiglia Messina Denaro che forse, per ignoranza, su qualche pezzo rubato, ha preso pure poco. Poi si fecero furbi. Il grosso lo guadagnava chi rivendeva all’estero. Secondo alcune inchieste, il figlio Matteo, consigliato da amici romani, cominciò a pretendere di più. Aveva capito. L’assurdo di questa penosa vicenda rimane nel fatto che, tutti sapevano e nessuno interveniva. Quale turismo. Ai Messina Denaro non interessava. Selinunte era già una miniera con i reperti trafugati. La mafia e la ristretta cerchia degli amici fidati , quelli dei salotti particolari, facevano soldi già cosi. Il mistero rimane sulla fine di questi soldi. Chi li ha, o li ha avuti  in gestione per conto del boss?

Nel gennaio del 1990-come riporta l’AGI- Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. Erano gli anni in cui ‘don Ciccio’ “usciva fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”.  Una decisione che fa puzza da ogni parte si legga. Eppure, Don Ciccio era molto conosciuto dalle Forze dell’Ordine anche per i suoi traffici su Selinunte. Superficialità della magistratura del tempo o altro? Non lo sapremo mai. Tanto i magistrati non pagano mai per i loro errori. 

Don Ciccio Messina Denaro aveva ucciso e rubato già dagli anni 50. In diversi articoli pubblicati dal 2018 sul nostro blog ne abbiamo parlato

 

Nel 1962 fu protagonista del furto dell’Efebo dal comune di Castelvetrano. Da quella data Don Ciccio entra nel business dei reperti rubati. I Carabinieri del tempo ,in molte relazioni investigative arenatesi nelle scrivanie dei tribunali , specificarono la pericolosità del boss. I Messina Denaro e i loro complici hanno lucrato per decenni su Selinunte

Vincenzo Tusa fece trasferire molti reperti a Palermo per salvarli dalle mani mafiose della cosca di Castelvetrano e dai loro amici trafficanti d’arte

 

Angelo Siino ,pentito morto tempo fa, lo spiega molto bene il ruolo di Don Ciccio 

«Era Don Ciccio  soprattutto che  aveva questo hobby particolare, perché la sua carriera la iniziò proprio come tombarolo a Selinunte».

Così il collaboratore di giustizia Angelo Siino descriveva Francesco Messina Denaro, il padre del boss di Castelvetrano 

 Il vecchio Messina Denaro era l’esperto di archeologia che avrebbe potuto contare su una rete di fidati tombaroli, e su un colpo di fortuna che riporta ai legami con la famiglia del senatore Antonio D’Alì, di cui Francesco Messina Denaro era il campiere. Don Ciccio era un umo di campagna ma dal cervello fino. Qualcuno lo formò bene e gli fece capire quanti soldi si potevano fare con i reperti di Selinunte. Per decenni fecero razzia di tutto ciò che trovavano. In molti si arrichirono . Non solo i Messina Denaro fecero soldi

L’elevazione del Boss

«Il livello sociale dei Messina Denaro era infimo – spiegò ancora Siino ai magistrati durante una deposizione – in quanto suo padre (il nonno di Matteo Messina Denaro) era bidello, con tutto il rispetto per i signori bidelli, era un bidello particolare. Non è che era chissà che… Poi praticamente loro in una zona bellissima, che peraltro non era di loro proprietà, avevano trovato una serie di reperti archeologici. Questo posto era di proprietà dei D’Alì. C’era un firriato, una sorgente d’acqua calda e diverse grotte, dove mi dissero: “Qua quello che abbiamo trovato è stato veramente incredibile”». Serviva qualcuno bravo a commercializzare  all’estero e in Svizzera in modo particolare.

 

Anche Giovanni Brusca, braccio destro di Totò Riina e poi collaboratore di giustizia, parla dell’attenzione di Cosa Nostra per il mondo dell’archeologia nei primi anni ’90, anche come strumento di pressione sullo Stato italiano. «C’era la possibilità di potere fare uno scambio di materiale – ricostruisce Brusca ai magistrati – cioè dando queste opere d’arte in cambio di permessi, al ché io mi diedi aiuto per potere trovare di questo tipo di materiale. Mi rivolsi a Salvatore Riina e Matteo Messina Denaro. Io non ero competente in materia, mi affidavo a loro; in più Messina Denaro mi ha fatto incontrare una persona, credo che non sia uomo d’onore, però una persona molto vicina a lui».

È l’incontro che avviene nella gioielleria Geraci di Castelvetrano. A lungo gli inquirenti hanno ipotizzato che questo ospite – «uno che stava in Svizzera e aveva contatti con mezzo mondo» 

Quello che invece è stato accertato è che per anni Castelvetrano è stata una importate centrale di smistamento di un vasto traffico di reperti archeologici, che si snodava tra l’ltalia e la Svizzera. Una logica conseguenza dell’onnipresenza dei Messina Denaro su quel territorio: «Qualsiasi cosa c’era a Castelvetrano che potesse produrre un chicco di grano – chiosa Siino – loro ci mettevano subito le mani». 

Ass. Verità e Giustizia

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