A Oslo, mentre sul boat il sogno mi dondola, mi viene in mente – chissà perché – il compagno T. unico fra pochissimi (forse il solo) che da comunista dichiarato, e sfegatato, riuscì a sbarcare negli Usa con tanto di visto e permesso di soggiorno. A quel tempo, nel pieno del mito americano della nuova frontiera e di altre baggianate simili, era impossibile ottenere un visto d’ingresso negli Usa per un lavoratore italiano che solo avesse bazzicato la Camera del lavoro e/o partecipato a qualche manifestazione di protesta. Veniva schedato dai carabinieri come “pericoloso attivista comunista e dall’arciprete come “ateo, nemico della santa chiesa”. Fra preti e carabinieri per quel padre di famiglia non c’era scampo. L’America se la poteva solo sognare! Nessuno poteva sfuggire a tali controlli, a tali sentenze. Erano questi i sistemi, i metodi vigenti anche nelle cosiddette grandi democrazie. Per cui, se questo lavoratore, generalmente un bracciante o un contadino povero, aveva necessità di emigrare negli Usa doveva darsi da fare per rimuovere le eventuali schedature, pregare l’arciprete affinché gli rilasciasse una sorta di attestato di disimpegno in politica e, men che mai, a fianco dei comunisti. Tutto ciò era richiesto da una severissima legge maccartista vigente negli Usa che negava a un comunista o a un simpatizzante del partito comunista il visto d’ingresso nel paese. Pur di emigrare, taluni si trasformarono da irriducibili comunisti a cittadini esemplari, cristiani e democristiani. Solo così potevano sperare d’imbarcarsi su un transatlantico e approdare nell’ America “bona”, talmente buona che per farti en-trare dovevi rinnegare le tue idee. Finché quella legge rimase in vi-gore tutti dovettero sottostare ai suoi rigori. Ricordo che il problema si pose anche per noi deputati Pci che, nel 1986, in qualità di membri della delegazione della commissione Difesa della Camera dei Deputati, dovevamo recarci in visita ufficiale in Usa, su invito del segretario di stato alla Difesa Caspar Weinberger. Ai tre deputati comunisti della delegazione, nominata dal presidente della Camera, l’ambasciata Usa di Roma non intendeva concedere il visto d’ingresso in ossequio alla famigerata legge. Ci volle una laboriosa trattativa fra Camera dei Deputati, Ministero degli affari esteri e Ambasciata Usa per ottenere un visto cumulativo rilasciato in soli-do alla delegazione. Una solenne minchiata che però sbloccò la trattativa e ci fece avere il visto d’entrata negli Usa. Quella fu la prima volta in cui tre deputati del Pci (Spataro, Angelini e Gatti) misero piede dentro il Pentagono, dove furono ricevuti, con tutti gli onori, dal Segretario di Stato alla Difesa. Una volta entrati, ci trattarono con grande rispetto: ci fecero vedere perfino i silos con dentro i missili nucleari intercontinentali, il comando sotterraneo nel Norad e tante altre cose, a dir poco, top-secret. Fu così che in quei giorni del 1986, a New York, incontrai e un po’ frequentai, il compagno T. che da tempo viveva nella Grande Mela, dove svolgeva il delicatissimo compito di corrispondente di un quotidiano italiano che in prima pagina ostentava il motto di “Giornale comunista”. Non capivo questa legge Usa che negava un visto d’entrata a un bracciante semianalfabeta, magari perché aveva partecipato a una manifestazione della CGIL per la difesa degli elenchi anagrafici, mentre consentiva a un giornalista comunista dichiarato, e piuttosto noto, di inviare dagli Usa corrispondenze, anche severe, contro l’Amministrazione Reagan. Come o cosa avrà fatto il compagno T.? Avrà anche lui chiesto una raccomandazione all’arciprete? O cosa? Fatto sta che quella legge discriminatoria a lui non fu applicata. Strano, però. E dopo questa insolita carriera negli Usa, ritornò in Italia, dove gli si aprirono tutte le porte del Paradiso.
* (Agostino Spataro da “Il dono di Tita”)