Il Caso Palamara scuote le toghe
“La politicizzazione della Magistratura italiana non esiste “. Lo hanno sempre sostenuto tutti i seguaci di quella sinistra poco attenta alle esigenze delle masse operaie e più deboli e molto interessata invece a colpire gli avversari. Dopo il caso “Palamara”, il castello di protezione verso quella magistratura rossa, carrierista e poltronista, sta crollando.
Una vera democrazia non può avere magistrati sensibili al richiamo della politica. I magistrati non dovrebbero mai fare politica . Si dovrebbe istituire la separazione della carriere come negli USA
Questo “patto sporco” ha radici profonde e che vanno indietro nel passato. Certi magistrati sono stati sempre sensibili al richiamo del potere. Lo dimostrano i depistaggi e i tanti misteri sulle stragi e i delitti eccellenti. Chi legge i libri di storia si ricorderà i tanti processi della Prima Repubblica fatti contro i mafiosi o plitici del tempo, finiti nel nulla “per insufficienza di prove”. La morte di Falcone e Borsellino, magistrati di alto livello morale ed etico, ha voluto anche spezzare quel modus agendi serio e imparziale di investigare. Quelle morti però, hanno dato anche energia a quella magistratura che ha usato le armi della giustizia con esagerato giustizialismo. Insomma, i Pm ,con i loro sistemi di indagine, con l’uso dei media, potevano distruggere chiunque molto prima delle sentenze. E , allo stesso tempo ,salvare anche qualche politico “amico” evitando di farlo finire nelle inchieste. Palamara che è stato un magistrato potente lo afferma chiaramente. Lo dimostrano anche i fatti. Un esempio facile è Crocetta. Con i capi d’accusa che ha, un politico di centro destra sarebbe finito in galera. Invece, l’ex governatore se la gode in Tunisia. Due pesi e due misure? Purtroppo è così. Anche nel caso del giudice Saguto si palesano differenze. Nonostante i capi d’accusa la Saguto non ha conosciuto nessuna limitazione alla sua libertà, potendo “inquinare” tranquillamente le eventuali prove. Anche nella sanità siciliana ci sono esempi di corruzione gravi ma, guarda caso, i politici di sinistra che hanno gestito la sanità fino al 2017 non vengono toccati. Anche i politici vicino a Montante, il re dell’antimafia stanno tranquilli. Strano ad esempio è anche il poco interesse da parte di alcune procure ad indagare su alcune coop rosse che gestiscono fatturati miliardari.
Adesso, dopo il libro di Palamara che potrebbe essere anche pieno di minchiate, viene riscontrata una specie di lobby che non solo esprime una tendenza politica , collettiva e individuale, in seno ai propri organi di rappresentanza e di autogoverno, ma anche attraverso un “disegno politico e strategico” in grado di provocare un vero e proprio uso politico e distorto della giustizia. Attraverso sentenze giudiziarie politiche, infatti, la Magistratura induce distorsioni dell’agenda politica dei governi e ne mina le funzioni, utilizzando strumentalmente il ruolo come arma di competizione politica. Considerando infatti complessivamente le vicende giudiziarie di Tangentopoli, i processi sulle commistioni tra mafia e politica e mafia e i numerosi procedimenti giudiziari avviati contro l’ex presidente del Consiglio Berlusconi, si sostiene che la Magistratura italiana sia così politicizzata da potere essere assimilata a un partito, che abbia operato politicamente a sostegno della sinistra. In questo senso i magistrati faziosi sono stati definiti “toghe rosse”, ad indicare la chiara riferibilità del loro operato a quella specifica parte politica.
Nel documento Lineamenti di una politica per la Giustizia. (Per cominciare) (Riformatori Liberali, 2006), disponibile on- line sul sito “Libertiamo”, Mauro Mellini, avvocato costituzionalista, deputato radicale per quattro legislature, eletto nel CSM nel 1993, sostiene che “è impossibile parlare in Italia di una qualsiasi riforma del sistema giudiziario o semplicemente di una politica per la giustizia che non sia la politica della pura e semplice conservazione dello sfascio esistente, se si prescinde dal fatto che la Magistratura è stata protagonista di un vero e proprio golpe realizzato attraverso ‘l’uso alternativo della giustizia’ (in passato teorizzata esplicitamente), secondo una precisa strategia per la quale i singoli processi, arresti, informazioni di garanzia hanno rappresentato meri strumenti per una ben coordinata strategia. Golpe per il quale la Magistratura e la minoranza egemone di essa che ne è stata protagonista, hanno stretto alleanze ed usufruito di coperture, provocato distruzioni di forze politiche, distribuito vantaggi e penalizzazioni, avendo avuto a disposizione i mezzi di comunicazione di massa. Ed hanno soppresso e represso ogni efficace voce critica, hanno demonizzato chiunque abbia osato mettersi di traverso a tale operazione” (Mauro Mellini, Lineamenti di una politica per la Giustizia…, cit. pp. 3-4).
L’azione dei PM è arbitraria
Sempre su questo fronte, da parte di Mellini, vi è la posizione espressa nella monografia Il partito dei magistrati. Storia di una lunga deriva istituzionale (Bonfirraro Editore, 2011). Nella recensione della monografia Un pezzo dello stato diventa partito, pubblicata sul sito “Giustizia giusta” il 31 ottobre 2011, il coautore, Alessio Di Carlo, cofondatore nel 2006 dello stesso periodico on-line, evidenzia “Con questo libro […] Mauro Mellini tira le somme di un suo lungo lavoro di analisi delle anomalie della giustizia italiana, della quale ha sempre sostenuto essere assai più gravi le vere e proprie “devianze” che non la conclamata inefficienza. La Magistratura, la funzione giudiziaria, un pezzo, cioè, dello Stato, esorbitando dall’alveo loro proprio, si sono sovrapposti ad altri poteri sostituendosi ad essi ed assumendo, per esercitarli, per ‘governare’, atteggiamenti e sostanza di un vero e proprio partito. È un errore fuorviante, sostiene Mellini, ritenere che ‘il partito dei magistrati’ sia, o sia solo, una sorta di complotto messo in atto da qualche tempo a questa parte per defenestrare Berlusconi. È qualcosa di diverso e, forse, di peggio. È il risultato di una lenta deformazione della stessa funzione giurisdizionale, conseguenza di una quantità di leggi improvvide che hanno, tra l’altro, stimolato atteggiamenti abnormi, senza effettive possibilità di rimedi, all’interno della Magistratura, che hanno reso arbitraria (altro che ‘obbligatoria’!) l’azione penale, consentendo operazioni di mera ricerca di ‘eventuali notizie di reato’, che hanno abbassato pericolosamente il livello culturale e professionale dei magistrati, creando tra di essi nuove ‘gerarchie’ a misura del clamore che essi sanno suscitare attorno alle loro persone ed alle loro imprese, magari, sconcertanti”.
Sul ruolo specifico dei pubblici ministeri, è intervenuto anche un autorevole esponente interno della stessa Magistratura, il procuratore Carlo Nordio. Nell’articolo Carlo Nordio: la giustizia politica? I PM possono arrivare dove vogliono, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 31 agosto 1998, si riportavano alcune dichiarazioni del pubblico ministero alla festa nazionale di AN (Alleanza Nazionale) a Mirabello: “Come funziona la ‘giustizia politica’ in Italia? Con la ‘clonazione del processo’, un sistema attraverso il quale i PM, ‘nella più perfetta legalità’, possono arrivare ‘dove vogliono’, cioè a un obiettivo predeterminato, come ‘un’impresa e un imprenditore’. […] Il PM non si accontenta solo di scegliere arbitrariamente i fascicoli da trattare, ma può decidere la persona o il settore su cui vuole indagare e, sempre nella più perfetta legalità, costruire un processo”.
Attacchi a giudici e PM solo per avere impunità
Anche Gian Carlo Caselli, autore di numerose pubblicazioni sul tema – tra le quali Assalto alla giustizia (Melampo, 2011), in cui condanna la delegittimazione della Magistratura avvenuta da parte della politica – tra i tanti interventi fatti sul tema, nel 2013, con riferimento agli ultimi momenti del conflitto istituzionale magistratura-politica, insorto in seguito ai processi a carico di Silvio Berlusconi, respinge definitivamente il teorema delle “toghe rosse”.
Nell’articolo Toghe rosse, la favola ventennale non regge più, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 22 agosto 2013 e in edizione digitale sul sito web di “Stampa Critica”, Caselli sostiene: “quando una decisione non piace – come nel caso del giorno – si prescinde totalmente dal punto essenziale se essa sia giusta o meno: si cerca invece di svalutarla nel merito tirando in ballo – a vanvera – le ‘toghe rosse’, accusandole di malefatte assortite che si possono sintetizzare nella colpa di esistere e di essere indipendenti. In realtà, parlare del colore della toga è una furbata. Perché le vicende giudiziarie degli ultimi vent’anni sono lì a dimostrare che le contestazioni del Cavaliere riguardano l’intero ordine giudiziario, e perciò uno spettro assai ampio, nel quale sfuma e diventa impercettibile l’eventuale diverso colore delle toghe […] All’inizio della storia, è vero, a essere oggetto di attacchi apodittici erano solo alcuni procuratori. Ma poi, man mano che i processi si sviluppavano, sono finiti nel mirino anche i magistrati giudicanti tutte le volte che hanno deluso certe aspettative. […] Anche l’empireo della Corte costituzionale è finito sotto i colpi delle contestazioni basate sulla pretesa ‘politicizzazione’ dei magistrati. È evidente perciò […] che il problema non è costituito da singole toghe, sfumature cromatiche incluse. L’attacco è a geometria variabile, nel senso che può subirlo qualunque magistrato, ministero o giudice, quale che sia la città o l’ufficio in cui opera, che abbia la ‘sfortuna’ di imbattersi in vicende ‘scomode’. In sostanza, giustizia giusta sembra essere – per il Cavaliere – solo quella che gli conviene, come prova il disinvolto passaggio dal bastone alla carota (‘c’è un giudice a Roma o Milano’, non solo a Berlino, e via incensando…) quando le pronunce gli risultino favorevoli. Ma ragionando in questo modo si rischia di sovvertire le regole fondamentali del nostro ordinamento”.
Fonte :https://www.proversi.it/