La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dopo oltre 14 ore di camere di consiglio, ha condannato all’ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92 di Capaci e Via D’Amelio costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e agli agenti delle loro scorte.

Il primo summit per decidere la stagione delle stragi si tenne nella sua Castelvetrano, alla fine del 1991. E poi Riina lo mandò a Roma per provare ad uccidere lì Giovanni Falcone. Matteo Messina Denaro è al centro della strategia di morte varata da Cosa nostra, ma fino ad oggi era stato condannato solo per le bombe del 1993.

Capo della mafia trapanese, Messina Denaro, ricercato da 28 anni, è stato tra i responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai cortonesi di Totò Riina e sostenuta da pezzi deviati delle istituzioni. La sentenza di Caltanissetta lo inchioda. Una sentenza che arriva molto tardi rispetto al periodo delle stragi. Stranamente, nei processi precedenti, non era stato mai condannato per le bombe di Capaci e Palermo. Secondo le recenti ricostruzioni investigative , ormai è dimostrato, alcune riunioni per la strategia delle bombe si svolsero a Castelvetrano. A quelle riunioni non parteciparono solo mafiosi. Matteo Messina Denaro fu presente , con responsabilità criminale e porta con se molte verità ancora non conosciute .

Secondo l’accusa, sostenuta in aula dal procuratore aggiunto Gabriele Paci, il boss Matteo Messina Denaro avrebbe determinato all’interno di Cosa nostra “un clima di unanimità senza il quale il capomafia corleonese Totò Riina non avrebbe potuto portare avanti i suoi piani stragisti, se non a rischio di una guerra di mafia”.
“Non è sostenibile – ha spiegato il magistrato durante la requisitoria, conclusasi con una richiesta di condanna all’ergastolo per il padrino latitante – che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso quella strada senza avere il consenso di Cosa nostra, perchè se ci fosse stato il dissenso dei vertici di una delle province ci sarebbe stata una guerra”.
La storia di quegli anni, dunque non sarebbe stata la stessa se Messina Denaro non avesse appoggiato la linea del padrino corleonese e se non avesse aiutato Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno. Quello che si è concluso stasera è il terzo processo che si celebra a Caltanissetta per la strage di Capaci e il quinto celebrato per la strage di via D’Amelio. Nelle altre tranche sono stati condannati a vario titolo capimafia ed esecutori materiali dei due attentati.
 
Il processo di Caltanissetta ha ripercorso i mesi drammatici dell’Italia delle stragi, la procura nissena ha potuto contare su una certosina opera di ricostruzione fatta dagli investigatori del centro operativo Dia di Caltanissetta. “Loro vogliono fare la Super Procura? – diceva Riina a Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano – E noi facciamo la Super Cosa”. C’erano i due fidati del padrino di Corleone a Roma, nella primavera del 1992, per pedinare non solo Falcone, ma anche l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli e il presentatore Maurizio Costanzo. Poi, all’improvviso, Riina richiamò tutti a Palermo. Perché Falcone doveva morire in Sicilia, con un’azione eclatante. Intanto, Messina Denaro aveva fatto arrivare nella Capitale un carico di esplosivo, che sarebbe poi servito per l’attentato a Maurizio Costanzo, eseguito il 14 maggio 1993.
 
 
Fonte: Blog Sicilia, Repubblica