Col finimondo della pandemia del Coronavirus, riscappa fuori anche Di Matteo. Per modo di dire, che non è che se ne fossero perse le tracce.
Il più scortato, costoso e festeggiato Magistrato d’Italia e forse di tutto il mondo, il condannato a morte da Totò Riina “all’orecchio delle guardie carcerarie”, il concorrente di tutti i concorsi in cui la condanna a morte inflittagli dalla mafia avrebbe dovuto assicurargli la vittoria, l’uomo dell’ubiquità fra la carica di Roma e quella di Palermo, ha insorto per la questione della liberazione dei vecchi condannati mafiosi.
E’ già qualche cosa che uno di quella fatta non sia venuto fuori a raccontarci che il Coronavirus è stato propinato dalla mafia per ammazzare lui, in esecuzione di quella famosa condanna.
No. Urla e strepita perchè a suo tempo avrebbe voluto andare a ricoprire la carica di Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione di Pena del Ministero della Giustizia, che è la più ambita tra quelle che una legge barocca attribuisce ad un Magistrato e che pare, non so perchè e come, sia anche la più lucrosa e conveniente.
Quell’insuccesso sarebbe stato voluto ed ottenuto, guarda un pò, dalla mafia. La mafia, ottenuto di avere a quella carica altri che l’uomo simbolo delle lotte contro di lei in una ininterrotta trattativa con lo Stato, avrebbe ottenuto la liberazione di quei vecchi rimbambiti boss e personaggi di spicco della mafia stessa.
Che a sottoscrivere questa spiegazione di quel che sotto diversi aspetti è stata una gaffe fosse lo stesso Di Matteo non c’era e non c’è da meravigliarsi. Anche se componente oggi del CSM gli faceva carico una discrezione e prudenza di linguaggio quanto meno che non pare faccia parte però del suo bagaglio.
Non so se Bonafede si compiaccia di vedere spostato su altri nomi il peso della polemica. Certo è che qualche imbecille pennivendolo descrivendo la storia della mancata presenza al Dipartimento degli Istituti di Pena di un personaggio della levatura del “Cittadino di Cento Città”, ha definito ancora una volta Di Matteo come Di Matteo ha sempre ottenuto lo si considerasse: l’uomo simbolo dell’antimafia.
Il simbolo dell’antimafia, per chi lo avesse dimenticato, è quello di un Sostituto Procuratore che, caduto in pieno nella rete del depistaggio nel processo della strage con cui fu assassinato Borsellino, diede peso e credito a tutti i costi al più scalcinato ed impudente dei banditi: Scarantino.
Ne venne fuori il più colossale degli errori giudiziari con una sentenza che poi fu riconosciuta ingiusta e quindi, benché passata in giudicato, cancellata.
Sentenza che comportava la condanna a ben 11 ergastoli. L’uomo del depistaggio però al quale la mafia avrebbe dovuto edificare un monumento sarebbe stato invece condannato a morte e come tale glorificato da tutti i babbei antimafia del nostro povero Paese.
Di Matteo ha sfruttato benissimo questa sua qualità (non quella vera, quella di cosiddetto uomo simbolo dell’antimafia) e di cittadino onorario di pressochè tutte le città ed un sacco di cittadine e di villaggi d’Italia.
E’ andato alla Direzione Nazionale Antimafia a Roma, ha conservato la facoltà di tener le mani nei processi che gli interessavano a Palermo, si è fatto eleggere al CSM. Ed oggi punta il dito contro Bonafede e contro l’attuale Direttore degli Istituti di Pena del Ministero gridando che con lui non sarebbe successa la liberazione di quei personaggi.
L’opposizione che nel pensiero di Di Matteo, e che Di Matteo cerca di diffondere, sembrerebbe sia che la mafia ha ottenuto che quei vecchi uscissero dal carcere lavorando da tempo per escludere dalla carica lui, il “Cittadino di Cento Città”.
Ho detto già che qualche babbeo pennivendolo ha ripetuto il titolo di uomo simbolo dell’antimafia per questo uomo simbolo degli errori giudiziari.
Non vorrei che per mandare a casa, come sarebbe certamente opportuno e giovevole per l’intera Nazione, un Ministro della Giustizia come il povero Bonafede, non si sapesse tirar fuori altro che Di Matteo e il suo ruolo oggi come negli ultimi anni di Magistrato più costoso (in ogni senso) per il nostro Paese.
L’uomo del più colossale degli errori giudiziari diventerebbe così l’uomo del più miserabile degli errori politici.
Mauro Mellini