Dalla politica alla sanità, la nuova vita per Angelino Alfano: l’ex ministro presidente del Gruppo San Donato che comprende 19 strutture in tutta la Lombardia tra cui il San Raffaele
Il Coronavirus in Lombardia ha messo in evidenza tutte le deficienze del sistema pubblico territoriale e ospedaliero. Una Regione dove la sanità privata ha conosciuto un notevole sviluppo anche per precise scelte politiche che miravano a valorizzare la sanità d’eccellenza. Un’eccellenza che il coronavirus ha dimostrato avere tanti” talloni d’achille”. A capo di una delle più importanti strutture private lombarde, guarda caso, troviamo l’ex ministro Alfano. Il politico agrigentino si è trasformato in presidente di società mediche
Paolo Rotelli, figlio del fondatore del colosso che gestisce 19 ospedali, in Lombardia ha ceduto il comando all’ex ministro. Nel cda del Policlinico San Donato gestisce la struttura con l’ex ad di Unicredit Ghizzoni
Il Gruppo San Donato non è un gruppo sanitario qualsiasi. Comprende strutture com il San Raffaele, il Policlinico San Donato e l’Istituto Galeazzi. Tutto molto “privato” . Alfano, viene “premiato” nel 2019 dopo l’uscita dalla politica annunciata nel 2018. Che “c’azzecca” Alfano con la sanità privata milanese è tutto da comprendere. Nella vita, come dice il detto “ci vuole culo” Lui ne ha avuto davvero tanto.
Gruppo San Donato (Gsd), la holding sanitaria controllata dalla famiglia Rotelli, leader della sanità privata a livello italiano si è trovata a gestire l’emergenza Coronavirus con Alfano alla presidenza. Paolo Rotelli, erede primogenito del fondatore Giuseppe, fece un passo indietro , assumendo la carica di vice presidente nel 2019. A completare il terzetto alla guida della holding, che ricordiamo,gestisce 19 ospedali, il manager svizzero-tunisino Kamel Ghribi, anche lui vice presidente nonché numero uno della Gsd Middle East, il “braccio” della holding sanitaria in Medio Oriente.
Lombardia, Bruno Tabacci: “La sanità con la Dc era pubblica, ha cambiato volto con Formigoni. La Regione ammetta gli errori”
Il deputato del Centro democratico, che è stato presidente lombardo della prima Repubblica, accusa: “Nella crisi del coronavirus c’è stato un misto di insipienza e superficialità. Ma il sistema è stato stravolto già dalla metà degli anni Novanta. E Maroni ha addirittura equiparato pubblico e il privato”
Leggete cosa dice Tabacci su “Repubblica”
Onorevole Tabacci, dove ha sbagliato la Lombardia?
“Nel sostenere tutto e il contrario di tutto. ‘Apriamo’. ‘Chiudiamo’. ‘Riapriamo’. Ancora pochi giorni fa, quando il governo ha deciso la riapertura delle librerie, il presidente Fontana è insorto, smarcandosi. Adesso non vuole più aspettare nemmeno il 4 maggio. Servirebbe più saggezza”.
Come racconterebbe a uno straniero quanto è accaduto?
“C’è stato un misto di insipienza e superficialità: ‘Siamo i più bravi e nessuno ci può dire cosa dobbiamo fare’. I dati dicono che il Veneto, che pure ha avuto un focolaio iniziale, è stato più bravo nel gestire l’emergenza. Loro, nella prima fase, hanno ricoverato il 26 per cento dei malati, l’Emilia Romagna il 45 per cento, la Lombardia il 75. Per converso la Lombardia ha curato soltanto il 14,5 per cento nell’assistenza domiciliare, l’Emilia il 45, il Veneto il 65. Questi numeri ci dicono che in Lombardia si sono indebolite le strutture territoriali in favore dell’ospedalizzazione. Un processo avviato a metà degli anni Novanta”.
Com’era ai suoi tempi?
“Io sono stato presidente dal 1987 al 1989. Prima di me avevano governato Bassetti, Golfari, Guzzetti, dopo di me venne Giovenzana. La sanità era in larga prevalenza pubblica, a parte il polo dei Rotelli a San Donato Milanese. Con Formigoni questo equilibrio si spezza. Si punta sull’ospedalizzazione d’eccellenza, che attira molti malati da fuori, specie dal Sud, e ancora meglio se danarosi. Ma di fronte all’epidemia questo modello ha mostrato tutti i suoi limiti. E queste cose non le dico io, da vecchio amministratore, ma le hanno scritte nero su bianco i medici dell’Ordine regionale in un documento del 6 aprile scorso”.
Come spiega lo spostamento dei malati nelle Rsa?
“Nel tentativo di svuotare le corsie degli ospedali si è commesso un altro errore gravissimo. La delibera regionale dell’8 marzo destinava i malati ‘a bassa intensità’ in 16 Rsa, senza verificare se fossero strutture adatte o meno ad isolare i contagiati. Di più: si sono ingolosite ad accettare questi pazienti, perché il 30 marzo si era fatta una delibera con cui si assegnava 150 euro al giorno per ciascun degente”.
Fontana dice che spettava ai tecnici controllare la capacità di isolamento delle residenze.
“Non si scarichi sui tecnici, per favore, le scelte della politica. Quando ci fu la frana in Valtellina, nell’agosto del 1987, dovetti decidere se far tracimare il lago che il fiume Adda aveva formato nella val di Pola, per togliere così l’alta valle dall’isolamento: Bormio era isolata da Sondrio. Mi consultai con il ministro della Protezione civile, Remo Gaspari. I tecnici erano divisi. Era una situazione complicata, rischiosa. C’era la diretta tv. Beh, presi la decisione e diedi il via libera, senza nascondermi dietro ai tecnici”.
Come nasce il modello Formigoni?
“Si è ceduto alle sollecitazioni dei privati. C’erano anche ai nostri tempi, cosa crede, ma la politica svolgeva ancora una funzione di rappresentanza degli interessi collettivi. Qui non si è saputo dire di no, mutando la sanità pubblica in un’altra cosa. La Lega, con Maroni presidente, ha poi proseguito l’opera. Morale: siamo stati incapaci di un controllo sul territorio, di operare screening di massa all’inizio della pandemia”.