
Il dato è riferito alla gestione dei beni confiscati al 2018
Degli oltre 23 mila beni confiscati solo una minoranza è riutilizzata correttamente, la stima della “Fondazione con il Sud” . Lo studio approssima il numero di aziende ancora in vita ad un migliaio.Si sa molto poco di molte aziende che fatturavano miliardi e tolte alle mafie. Probabilmente, di casi “alla Saguto” , ve ne sono stati altri e in diverse zone del territorio. Il giro d’affari derivato dalle aziende e dai beni sequestrati fino al 2018, sfiorava i 30 miliardi di Euro. Un valore pari ad una manovra finanziaria. Purtroppo, spesso, come già evideniziato dalla stampa non allineata, chi ha denunciato i fenomeni corruttivi all’interno del sistema antimafia, è finito o in carcere o sotto inchiesta. L’azione di confisca doveva consentire allo Stato, (dopo un giusto processo) la restituzione ai territori ricchezze che erano finite nelle mani della mafia. I dati dicono il contrario. La “ricchezza”in molti casi non si sa dove sia finita
Il problema fondamentale è che la gestione di questi beni richiede investimenti e soprattutto richiede che essi siano affidati a chi sia in grado di usarli al meglio. Importante è anche il controllo ex-post dei beni, che però appare alquanto inesistente. Il riutilizzo dei beni sequestrati è di vitale importanza per lo Stato, può alimentare l’opinione pubblica in positivo e accresce la sua percezione sul territorio.
Il dato riguarda le aziende confiscate nel territorio italiano. In Sicilia sono pochi i casi di aziende ancora in attività. Negli ultimi anni in Sicilia si sono bruciati migliaia di posti di lavoro . Sono stati spesi molti soldi publici per gli ammortizzatori sociali a favore degli ex dipendenti di aziende confiscate. Un danno economico enorme che non può essere solo valutato per la malegestio degli amministratori giudiziari
Emblematica la storia di un imprenditore finito in amministrazione giudiziaria e poi assolto: in pochi anni il suo bilancio è stato decimato, da un fatturato milionario l’anno prima del sequestro del 2010 a un bilancio da 600 mila euro dopo sei anni di amministrazione giudiziaria quando il legittimo proprietario è stato assolto definitivamente nel 2014 da ogni accusa di collusione con la mafia.
E’ il caso – raccontato da Lodovica Bulian, su Il Giornale del 4 ottobre 2017, alla pagina 5 – di Vincenzo Rizzacasa, imprenditore siciliano assolto in appello e poi in Cassazione.
Ma non è l’unico. Basti pensare che finora quasi il 90% delle attività confiscate dallo Stato non sopravvive. Uno studio «Transcrime», centro di ricerca dell’Università Cattolica di Milano ha rivelato che solo il 15% delle aziende tra quelle sottoposte a controllo statale nel periodo che va dal 1983 al 2013 è ancora attiva. In Sicilia i casi di fallimento di aziende restituite sono tantissimi
Già, perché non ci sono solo le aziende confiscate alla mafia che finiscono sul lastrico sotto la gestione dello Stato. Ci sono anche quelle che falliscono prima ancora che si arrivi a sentenza definitiva dell’imputato che, spesso, una volta assolto e legittimato a tornare in possesso dei suoi beni, si ritrova in mano valori ormai perduti. Liquidati. Falliti. Caduti m crisi per l’incapacità di stare sul mercato, con una metamorfosi da eccellenze a scheletri industriali.
E se il codice antimafia approvato dal Parlamento promette di porre ordine alla gestione giudiziaria del tesoretto delle confische ai mafiosi e di «superare le opacità che hanno caratterizzato la questione negli anni passati», come ha detto l’ex ministro Andrea Orlando, l’allargamento delle misure personali e patrimoniali previsto dal codice anche a chi è anche solo indiziato di associazione a delinquere finalizzata a peculato, corruzione, stalking e reati contro la pubblica amministrazione, rischia di aumentare anche il numero di imprese destinate al declino.
Lo studio di Transcrime ha riguardato sia il periodo prima del sequestro, quando ancora le imprese erano gestite dalle mafie, sia lo stato attuale delle aziende. Ebbene, i ricercatori hanno stimato che il 65-70% delle imprese requisite sia finito in liquidazione, il 15-20% in fallimento, e solo un altro 15% sia ancora attivo. Quando poi alla gestione giudiziaria si aggiunge anche la lentezza dei tribunali, il mix è fatale: ci sono imprenditori che si ritrovano ad attendere anni prima di tornare in possesso dei loro beni posti sotto sequestro. Come il palermitano Francesco Lena, ancora in attesa di riavere l’azienda vitivinicola, dopo che il filone penale si è già concluso 5 anni fa con l’assoluzione definitiva dall’accusa di associazione mafiosa.
Fonte: sito Anticorruzione