Peppino Impastato, l’inchiesta sul depistaggio e la pista che arriva a Gladio: tutti i pezzi mancanti 40 anni dopo l’omicidio
Cinque indagini, la condanna in primo grado per il boss di Cosa nostra Tano Badalamenti e due richieste d’archiviazione per i carabinieri di Antonio Subranni non sono bastate a scrivere la verità sull’omicidio dell’attivista di Democrazia proletaria, assassinato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Sullo sfondo resta la relazione dell’Antimafia che parla di “patti” tra mafiosi e pezzi dello Stato e una pista che conduce a un altro mistero italiano
Il Fatto Quotidiano pubblicò un interessante inchiesta sulla misteriosa morte di Peppino Impastato. La prponiamo a chi legge , nella giornata in cui si ricorda il suo vile assassinio. Una vicenda che rimane piena di dubbi. I soliti di dubbi di ttanti omicidi eccellenti siciliani. Ancora una volta, tutto deve apparire in modo tale che la verità non si potrà mai capire. Il solito modus del depistaggio più o meno autorizzato e dove ogni cosa pilotata sembra reale e, invece, non lo è affatto. Povera quella terra che è presa di mira da conflitti violenti e sanguinosi ,dove lo Stato, già lo Stato che si fonda sulla democrazia popolare deve giocare due partite e su campi diversi. Servirà sempre un eroe per nascondere i vigliacchi e gli stolti che speculano sul bene del popolo
Dal Fatto Quotidiano
Doveva essere solo la storia di un pazzo, uno dei tanti. Un terrorista saltato in aria mentre cercava di fare esplodere la ferrovia. E invece era la storia di una ribellione: la ribellione a Cosa nostra fatta da un figlio di Cosa nostra. Ma quella di Peppino Impastato è soprattutto la storia di un depistaggio. Un caso insabbiato perché legato a una pervicace e inconfessabile convivenza, sempre la stessa: mafiosi protetti da pezzi dello Stato. Il risultato è che non sono bastati oltre quarant’anni, cinque inchieste della magistratura, una della commissione Antimafia, due condanne in primo grado per boss di Cosa nostra e altrettante richieste d’archiviare le indagini su quattro carabinieri per scrivere la verità sull’omicidio dell’attivista di Democrazia proletaria, assassinato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978.
La notte della Repubblica – Sarebbe passata alla storia come la notte della Repubblica, con i telegiornali a raccontare del ritrovamento di via Caetani, la Renault, le Brigate rosse e il cadavere di Aldo Moro. In coda una notizia locale: la morte accidentale di un bombarolo pazzo in terra di Sicilia. Non era accidentale e non era neanche quella di un bombarolo pazzo. La verità era un’altra ed era vicina, vicinissima, addirittura a pochi metri da casa del morto. Anzi ad appena cento passi, per citare il film di Marco Tullio Giordana che diede notorietà alla storia dell’attivista di Cinisi. Figlio e nipote di mafiosi, Impastato era nato e cresciuto nella stessa strada in cui abitava Gaetano Badalamenti, il boss del paese che sarà condannato all’ergastolo per quell’omicidio ma solo in primo grado: Tano Seduto, come lo chiamava Peppino dai microfoni della sua radio Aut, sarebbe morto prima della Cassazione.
Indagini, pentiti e archiviazioni – D’altra parte per arrivare alla sentenza della corte d’Assise su Badalamenti si è dovuto attendere fino al 2002: un pezzettino di verità con ventiquattro anni di ritardo. Ed è per questo motivo che la principale domanda rimasta inevasa ancora oggi è soprattutto una: perché gli uomini del generale Antonio Subranni avrebbero depistato le indagini sull’omicidio Impastato? A sancirlo non c’è alcuna sentenza, ma anzi sull’ex numero uno del Ros, recentemente condannato a dodici anni alla fine del processo sulla Trattativa Stato – mafia, è stata avanzata una richiesta d’archiviazione. A tirarlo in ballo è il pentito Francesco Di Carlo: “Gaetano Badalamenti – ha raccontato il collaboratore – spingeva Nino e Ignazio Salvoper parlare col colonnello. Dopo poco tempo mi ha detto: no, la cosa si è chiusa. Non spuntava più niente nei giornali per un periodo, era stata archiviata“. Per due volte, però, la procura di Palermo ha chiesto al gip di chiudere l’inchiesta su Subranni, accusato di favoreggiamento, e su Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo, accusati di falso. Il motivo? Su quei reati si è ormai abbattuta la prescrizione. L’ultima richiesta d’archiviazione è del giugno del 2016 e da allora si attende che un gip decida cosa faredell’indagine riaperta nel 2010 dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, e poi portata avanti anche dai pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia. È l’ultima inchiesta sul caso Impastato e ripercorre nel dettaglio le manovre compiute dai carabinieri per evitare a tutti i costi di battere la pista mafiosa.
Come insabbiarono l’omicidio – Un depistaggio ricostruito dal centro Impastato – autore nel 1994 della prima istanza di riapertura dell’inchiesta – e poi finito sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia, che ha messo in fila omissioni e buchi di un’indagine deviata già sulla scena del delitto. Quella mattina di maggio di quarant’anni fa, gli investigatori arrivati nelle campagne tra Cinisi e Terrasini non vedono che a pochi metri dal cratere sui binari c’è una pietra: è un grosso sasso con una larga macchia scura di sangue. A trovarla, alcune ore dopo, saranno i compagni di Peppino: con tutta probabilità è l’arma usata per ammazzarlo. Poi i killer “vestirono il pupo”, lo legarono al binario e fecero in modo che sembrasse un terrorista morto suicida. Ma nella prima informativa dei carabinieri di quel sasso rosso non si parla. “In proposito – si legge in un articolo del Giornale di Sicilia di quel periodo – gli investigatori hanno detto di avere trovato accanto a quelle macchie degliassorbenti igienici femminili e sono convinti che l’indagine ematologica non sposterà il quadro già delineato”. Si parla molto e subito, invece, dell’esplosivo usato per il presunto attentato: era dello stesso tipo di quello che veniva utilizzato nelle cave. Eppure non una perquisizione sarà ordinata nelle cave intorno Cinisi, tutte o quasi di proprietà dei mafiosi. “Anche se si volesse insistere su un’ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia”, scrivono sicuri i carabinieri nel primo rapporto presentato in procura.
La testimone scomparsa era a casa sua – E siccome la mano mafiosa era da escludere a priori, non vengono sentiti neanche quelli che potevano essere i testimoni oculari del delitto. Come Provvidenza Vitale, la casellante di turno al passaggio a livello di Cinisi la notte in cui Impastato viene ammazzato. Per trentadue anni nessuno è mai riuscito a trovarla. O meglio: si disse che era immigrata negli Stati Uniti perché rimasta vedova e sui verbali i carabinieri scrissero semplicemente che la donna era “irreperibile”. Solo che Vitale non è mai scomparsa e non è mai stata neanche irreperibile. Salvo brevi soggiorni da alcuni parenti Oltreoceano, ha sempre abitato a casa sua, a Terrasini, cittadina attaccata a Cinisi, poco più di diecimila abitanti ad ovest di Palermo. A scoprirlo è proprio il pm Del Bene che va a interrogarla nel 2011: la donna, però, ha ormai 88 anni e pochi ricordi di quella notte di maggio del 1978. Il pm, però, appura che Vitale non si era quasi mai allontanata da casa, che ha sempre abitato a due passi da luogo in cui Impastato fu ucciso, dove ha cresciuto sei figli. Addirittura uno dei suoi generi è un carabiniere: perché, dunque, per tutti questi anni gli investigatori avrebbero cercato di celare agli organi inquirenti l’esistenza della teste chiave in un caso delicato come quello Impastato?