Parlando ai giornalisti dopo il voto in Giunta negativo sul processo a Salvini, Di Maio ha voluto aggiungere al commento di errori e di stravaganze gettate nel gran mucchio della polemica sul procedimento “ministeriale” a carico del suo alleato-nemico, l’affermazione che l’aver rimesso al voto telematico la decisione sulla questione, della quale credo ben pochi Cinquestellati hanno capito qualcosa, era stata una “bella affermazione della democrazia diretta”.
Una sciocchezza più grave di quelle già messe a segno. Parlare di democrazia diretta in ordine ad un voto e di un voto preliminare! Ed addirittura preprocessuale in un procedimento di giurisdizione penale speciale è un bell’esempio della cultura dell’approssimazione e del sentito dire che caratterizza il Movimento populista grillino (e, purtroppo, non solo quello).
Ciò rende ancor più pertinente quanto s’abbia a dire in proposito.
L’argomento della cosiddetta “democrazia diretta” e delle tendenze ad invocarne i valori ed i metodi di quelli che la invocano per combattere nongià il carattere “indiretto” dell’altra, ma la stessa democrazia e proprio la democrazia quale principio e sistema fondamentale delle libere Istituzioni è ciò che così si realizza.
Di democrazia diretta si è parlato e si parla nel fare la storia delle antiche Città-Stato della Grecia e di popoli nomadi anche del Nord Europa e delle città del Medioevo. Ne hanno scritto poi, teorici della politica del Settecento.
Ma la Rivoluzione Francese, che fu figlia del loro pensiero vide il potere esercitato in nome del Popolo, della Nazione, ma, di fatto, dai gruppi (i club) parigini, con un seguito, di volta in volta occasionale di una folla scatenata e non certo impegnata in funzioni deliberanti.
Il ricorso al voto popolare, invece, fu esercitato nel secolo XIX proprio dal regime autoritario (Napoleone III).
Esempio migliore è dato dal referendum popolare nella Repubblica Elvetica, in cui sono state conservate forme di convivenza politica e sociali di epoche ed ambienti in cui le comunità, assai poco numerose, dovevano in libertà decidere di interessi per esse vitali ed assai ben concreti e precedentemente discussi e messi in prova.
La corrispondenza del referendum popolare alle dimensioni di piccole comunità per la soluzione di questioni dibattute nella loro tradizione localistica, ha fatto sì che proprio la democrazia politica delle Nazioni fiorita nel secolo XIX ne respingesse la validità e che invece al referendum guardassero con simpatia le forze politiche autoritarie e populiste e la Chiesa Cattolica che contava (e conta) sul controllo di quelle forze.
Nella Costituzione della Repubblica Italiana, il referendum, peraltro solo abrogativo di leggi (potrebbe dirsi “difensivo” contro il progresso legislativo) fu introdotto proprio come strumento populista per iniziativa dei democristiani. Intanto ne era stato fatto uno per risolvere la “questione istituzionale” con la scelta repubblicana delle forme dello Stato.
Dal 1948 fino al 1974 fece uso dell’istituto referendario solo la Chiesa Cattolica come ultima carta da giuocare contro il divorzio. Perdendo la partita, così che si creò un generale convincimento che il referendum fosse strumento di democrazia adatto a conquiste e difese dei diritti civili.
Ma a valersi di tale supposto carattere furono soli i Radicali. Ci sarebbero da fare interessanti considerazioni su tale situazione: prima fra tutte che mancava nel Paese, per il sistema consociativo di fatto imperante, quella contrapposizione concreta su grandi temi che è fondamentale nell’esercizio di una competizione referendaria.
Il Partito Radicale, stimolato dalla vittoria divorzista del 1974, ritenne di poter dare all’uso del referendum il carattere di un istituto che modificasse addirittura il tipo della democrazia delle Istituzioni del Paese. In realtà, l’uso sconsiderato ed improprio, oltre che “smodato”, del referendum fece sì che di esso rimanesse solo il carattere di una spinta, di un’aspirazione proprio alla democrazia diretta.
I referendum “a grappolo” nei quali si esaurì buona parte dell’iniziativa politica radicale, rappresentarono indubbiamente, infatti, l’immagine di una “democrazia diretta”.
Ora non vi è dubbio che la democrazia diretta, anziché una forma più esplicita e genuina di democrazia è un sistema incompatibile con la complessità organizzativa di una società moderna. Non solo, ma con il ricorso al voto popolare diretto su questioni anche assai approfondite e ampiamente dibattute tra il pubblico non si perviene a scelte appropriate tali da superare i condizionamenti di particolari, potenti interessi. Semmai, si dà ad essi più facile possibilità di imporsi e di imporre soluzioni ad essi più convenienti.
La democrazia diretta, inoltre, anche con altre regole ad essa ispirate, finisce per ostacolare, anziché favorire, la creazione di una classe politica portatrice di grandi valori e dotata di adeguata preparazione e capacità.
Sono le regole collaudate e ben sperimentate, il loro culto, una adeguata correlazione tra cultura e politica che danno vigore alle libere istituzioni.
Una forte e benefica “democrazia” è quella che non impedisce, ma favorisce, costituendone l’humus, la nascita di un’aristocrazia che essa stessa seleziona e fa crescere, aperta e capace di dominare la complessità dei problemi delle comunità e degli Stati.
La democrazia diretta in cui oggi cerca di esprimersi il populismo sembra piuttosto capace di reprimere il sopravvenire di governanti capaci di sostenere i loro compiti. Ci dà i Salvini, i Di Maio, ma, soprattutto, i Toninelli.
Non dico altro.
Mauro Mellini