Le motivazioni del provvedimento che ha annullato l’appello. La difesa: affermazioni “infelici”.
PALERMO – I giudici della corte d’appello di Palermo hanno “illogicamente ed immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì”. Lo scrive la corte di Cassazione nel provvedimento che ha annullato il verdetto della corte d’appello di Palermo a carico dell’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici romani hanno depositato le motivazioni del provvedimento nei giorni scorsi. L’ex senatore azzurro, accusato di avere rafforzato Cosa nostra e di aver goduto dell’appoggio elettorale della mafia, era stato assolto dalla corte d’appello del capoluogo siciliano per le imputazioni relative ai fatti successivi al 1994, i giudici avevano poi dichiarato prescritte le accuse inerenti al periodo precedente a quell’anno.
“Si dubita della logicità del ragionamento della Corte palermitana – si legge nelle motivazioni – nel momento in cui non prende una posizione netta sulla rilevanza al supporto elettorale fornito da Cosa Nostra a D’Alì non solo nel 1994, ma anche a quello ricevuto nel 2001. La Corte non ha spiegato, infatti, se ed in che termini il rinnovato appoggio del 2001 sia stato ritenuto dimostrato e le ragioni per cui esso non avesse un significato contra reo sia come concretizzazione di un accordo politico mafioso, sia in termini di dimostrazione della persistente vicinanza dell’imputato alla cosca – a dispetto degli anni trascorsi dall’ultimo sostegno – e dell’utilità di quest’ultima ad appoggiarlo nuovamente”. Secondo la Cassazione, gli elementi raccolti evidenzierebbero “un atteggiamento (dell’imputato ndr) non solo di per sé incompatibile con l’osservanza dei doveri istituzionali di un senatore e sottosegretario, ma altresì sintonico con la vicinanza ed il ‘debito’ che gravava sull’imputato nei confronti della consorteria che l’aveva sostenuto”.
“Si tratta di profili che l’approccio settoriale prescelto dalla corte d’appello – dice la Cassazione – non ha permesso di sceverare adeguatamente e logicamente nel suo complesso e che comunque la corte, negando la rinnovazione dell’istruttoria, non ha consentito di approfondire come sarebbe stato necessario”.
Secondo la Cassazione inoltre quella di secondo grado è una sentenza con “cadute logiche” che compie una “illogica cesura” tra le condotte contestate all’imputato. “Rispetto alla gravità di tali condotte, – scrive il collegio presieduto da Paolo Antonio Bruno – non appare logico operare una cesura netta tra i due periodi e non attribuire alcun rilievo postumo alla vicinanza (di D’Alì ndr) a personaggi di primissimo piano nel panorama mafioso ed all’asservimento ad operazioni immobiliari ed economiche funzionali agli interessi della cosca che possono dirsi accertati”. Il riferimento è al fatto accertato in sede processuale che D’Alì abbia “svolto attività a beneficio del massimo esponente di Cosa Nostra del tempo, Salvatore Riina, nel contempo godendo della fiducia della consorteria. Tale attività era consistita nell’intestazione fittizia di un terreno in realtà trasferito molto tempo prima ad un esponente di primo piano di Cosa Nostra che non poteva figurare quale intestatario per timore di confische; D’Alì si era prestato, prima, a mantenere la titolarità formale del terreno nonostante l’avvenuto trasferimento al mafioso e l’incasso sotto banco del prezzo e, poi, anni dopo rispetto al trasferimento di fatto, alla formalizzazione della compravendita nei riguardi di un prestanome, ricevendo il pagamento ufficiale di parte del prezzo in assegni e restituendolo in contanti, con un’utilità della cosca anche in termini di riciclaggio”. Per la Cassazione il fatto che l’ex sottosegretario a gennaio del 1994 abbia terminato di “ridare” il denaro a Cosa nostra non può essere ritenuto uno spartiacque tra i rapporti provati con le cosche e la cessazione degli stessi.
La difesa
“Non possiamo che prendere atto, con disappunto, delle infelici motivazioni espresse dalla Cassazione che, come noto, dovrebbe solamente esaminare profili di legittimità della sentenza di appello impugnata dal P.G. Ci pare in verità che la Corte di Cassazione si sia spinta un po’ oltre, con alcune improprie valutazioni di merito che risultano ovviamente parziali, dato che la realtà processuale oggetto di giudizio della Suprema Corte non tiene conto, perché non poteva tenerne, di separate vicende processuali, per le quali si è creato di recente anche un giudicato definitivo, che ancora una volta hanno demolito l’impianto accusatorio del teste Birrittella”. Lo scrivono, in una nota, gli avvocati Gino Bosco e Stefano Pellegrino, difensori dell’ex senatore Antonio D’Alì dopo il deposito delle motivazioni della sentenza che ha annullato il verdetto della corte d’appello emesso nei confronti dell’ex politico. D’Alì è sotto processo per concorso in associazione mafiosa. “Ci riferiamo ad esempio al processo Mannina basato sulle uniche accuse del Birrittella di voler acquistare la Calcestruzzi Ericina per conto delle cosche trapanesi. – spiegano – Ebbene Mannina è stato assolto in Cassazione ed è stata annullata interamente la misura di prevenzione patrimoniale. Pertanto la fattispecie della Calcestruzzi Ericina per come ormai processualmente delineata ed esaminata dalla Cassazione andrà necessariamente riletta, in sede di merito, senza ‘personaggi in cerca di gloria’ e senza riferimento alcuno al preteso intervento di chicchessia in favore delle cosche trapanesi, escluso dalla stessa Cassazione nel processo Mannina (dove le accuse del Birrittella sono cadute nel vuoto assoluto) e non (in linea teorica) nel processo di Antonio D’Alì. Il tutto appare un po’ strano”. “Tuttavia, almeno, la Corte ha messo dei paletti alla eventuale nuova attività istruttoria da compiersi in sede di appello, – proseguono – dichiarando inammissibili le richieste di integrazioni istruttorie avanzate dal PG al riguardo del teste Treppiedi e della vicenda di Linares, articolate nel ricorso per Cassazione dello stesso PG”.
Fonte : Live Sicilia
Il Circolaccio