La sera del 30 marzo del 1960 al numero civico 211 del viale della Vittoria ad Agrigento dei killer si avvicinarono al commissario di polizia Cataldo Tandoy e spararono a bruciapelo.
Questo delitto fu strumentalizzato per demolire la “posizione politica” del Presidente La Loggia, in quanto si suppose che i mandanti dell’omcidio fossero appunto il professor Mario La Loggia e Leila Motta – la moglie del Commissario – sui quali si maldiceva una relazione nella quale si volle insinuare anche un altro vertice per un “triangolo” equivoco con Danika: la moglie del Professore, una svedese della personalità prorompente.
Nella mia esistenza ho avuto l’autentico privilegio di conoscere anche il sostituto procuratore Luigi Fici il quale da “vero” conoscitore della Mafia agrigentina suggerì al magistrato Tumminello che la pista da seguire era la Mafia di Raffadali, determinando l’immediata scarcerazione dei sospettati e dopo quasi due decenni, la condanna dei mandanti. Ma con sei mesi di reclusione dei sospettati, la “macchina del fango” aveva ottenuto il suo scopo.
La mezzonotte del 14 febbraio 1960 Ludovico Corrao – delfino dell’onorevole Silvio Milazzo – insieme a Sergio Marraro salirono le scale che dalla hall del Grande albergo “Delle Palme” portano al primo piano. Raggiunsero la stanza 128 dove li aspettava l’onorevole Carmelo Santalco, deputato DC all’Assemblea regionale siciliana.
I due non sapevano di essere stati attirati in un tranello politico
L’agguato e il processo sbagliato
Tre proiettili raggiunsero il poliziotto che si accasciò a terra trascinando con sé la moglie Leila Motta che teneva per mano. Il commando colpì anche uno studente, Ninni Damanti vittima innocente.
Un classico per i delitti di mafia. Le indagini si mostrarono subito difficili ed imbarazzanti: pista privilegiata quella passionale. Si scoprì che la moglie di Tandoy aveva una relazione extraconiugale. L’amante era Mario La Loggia, un potente di mestiere psichiatra, appartenente ad una delle famiglie borghesi più in vista della città, impegnato in politica con la Democrazia Cristiana. Con l’accusa di esserne stato il mandante La Loggia fu tratto in arresto con altri due presunti 78 complici, ma le convinzioni della magistratura naufragarono al processo.
Chiusa la pista passionale restò in piedi quella legata al suo lavoro di capo della Squadra Mobile. Si accertò che nonostante il suo trasferimento a Roma Tandoy aveva deciso di portare avanti un’inchiesta sulla famiglia mafiosa di Raffadali che egli conosceva bene per via delle confidenze avute da tale Cuffaro. Chiese così all’agente Ippolito Lo Presti di inviargli un baule pieno di documenti al nuovo indirizzo romano. Nella cassa, successivamente perquisita, si trovò tutto tranne il dossier- Raffadali. Sul banco degli imputati questa volta finirono cinque raffadalesi. Venne sollevata l’eccezione della libera suspicione e per incompatibilità ambientale il processo si celebrò a Lecce: agli imputati furono inflitte pene severe. Ma poi usufruirono dei benefici di legge»16.
Cataldo Tandoy era arrivato ad Agrigento poco prima dell’assassino del dirigente sindacalista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca, il 4 gennaio del 1947. Era un funzionario digiuno di esperienze mafiose e di intrighi politici, ma intelligente e dotato di buon naso. «In poche settimane di indagini sul delitto Miraglia arrestò sei mafiosi devoti ai La Loggia: Carmelo Di Stefano di Favara; Rossi, Gurreri e Segreto di Sciacca, Montalbano di Caltabellotta e Oliva di Castelvetrano.
Tandoy era certo della loro colpevolezza; ma dovette rapidamente cambiar parere. I sei furono infatti prosciolti in istruttoria e, come prima azione, denunciarono il commissario alla magistratura. Fu forse questo il primo avvertimento rivolto all’inesperto poliziotto che ancora non aveva capito da che parte spirasse il vento: Tandoy chinò il capo.
Nel 1951, quando fu ucciso Eraclide Giglio, il sindaco-boss di Alessandria della Rocca, Tandoy, che era ottimo segugio, seppe che la esecuzione era stata decisa durante una riunione avvenuta nella sacrestia di una chiesa di Aragona, ed individuò il sicario. Ma fu ancora una volta sfortunato: l’assassino di Giglio morì cinque minuti prima dell’arresto e la stessa fine fece un altro individuo indiziato. Tandoy rinunciò a mostrare troppo zelo e da quel momento egli divenne uno dei tanti amici degli amici, la cui carriera era legata al tatto che avrebbe dimostrato nell’esercizio delle sue funzioni, alla benevola cecità di cui avrebbe dato prova, al rispetto di certe regole non scritte.
Ogni tanto aveva un guizzo di ribellione: quando fu ucciso Zarbo d Raffadali fermò per 48 ore un certo Mangione, guardia spalle di La Loggia, lo psichiatra. In quell’occasione Zarbo fu udito gridare: ‘Io so chi l’ha ammazzato’. C’era una vena di amarezza nelle sue parole. Anche se la sua attività di poliziotto doveva soccombere dinanzi a determinate connivenze, non rinunciava ad indagare. Aveva raccolto una miniera di notizie e avrebbe minacciato di rivelare al segretario della Dc Aldo Moro, che era stato suo compagno di scuola, i tremendi segreti della fazione Dc di Agrigento. I fatti di sangue che per dodici anni hanno contrassegnato la faida tra i due raggruppamenti elettorali contrapposti, le cosche mafiose e i loro collegamenti. «Tandoy non rinunciava ad indagare». Secondo gli inquirenti Tandoy fu ucciso «perché si preparava ad accusare La Loggia per l’uccisione degli esponenti Dc Giglio e Montaperto».
Fonte : Altra Agrigento
Il Circolaccio