Vincenzo Luppino fu ucciso nel 1987 con la classica esecuzione mafiosa. Democristiano , amico di Vito Lipari, venne eliminato dai sicari probabilmente per aver fatto parte del gruppo mafioso che sequestrò Corleo su ordine dei corleonesi
Da Repubblica di quel periodo
IMPRENDITORE UCCISO A LUPARA CONTINUA LA ‘FAIDA CORLEO’?
TRAPANI E’ un delitto che, con tutta probabilità, riporta ad una terribile faida che ha già fatto una ventina di morti ammazzati: quella che si è aperta tredici anni fa dopo il sequestro del potente esattore Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, e che non ha mai fatto ritorno a casa. E’ questa la pista che gli investigatori stanno seguendo per il delitto di Vincenzo Luppino, 47 anni, esponente della Dc nel Comitato di gestione della Usl, assassinato a colpi di lupara a Castelvetrano .Polizia e carabinieri stanno dunque rivedendo tutti i fascicoli relativi al rapimento dell’ esattore, avvenuto nel luglio del ‘ 75, un caso mai risolto ma vendicato dai killer con una strage che ha eliminato tutti i presunti autori dello sgarro. Sotto il piombo era caduto anche un fratello di Luppino, Giovanni, eliminato nel ‘ 76 a Mazara del Vallo. Il sospetto dunque è che pure la vittima dell’ altro ieri, un imprenditore che aveva costruito un piccolo impero economico nel suo paese, sia stato giustiziato nella lunghissima faida. A mettere a segno il sequestro Corleo sarebbero stati i corleonesi di Luciano Liggio. Per il riscatto vennero richiesti sei miliardi, mai versati. E di Corleo non è stato restituito nemmeno il cadavere. A rendere ancora più inquietante il delitto di Vincenzo Luppino c’ è inoltre la stretta amicizia che lo legava a Vito Lipari, il sindaco democristiano di Castelvetrano ucciso nell’ 80. Lipari, molto vicino ai Salvo, sarebbe caduto su una storia di appalti per la ricostruzione della valle del Belice: alla sbarra, nel processo che è in corso, c’ è fra gli altri quel Mariano Agate indicato come boss emergente delle cosche trapanesi. L’ agguato è scattato poco prima delle 21 di venerdì sera. L’ uomo aveva appena chiuso il rifornimento di benzina di sua proprietà, e a bordo di una Mercedes stava per fare ritorno a casa. I killer quasi certamente ne avevano seguito le mosse per tutta la giornata, in attesa del momento giusto per entrare in azione. E la missione di morte è scattata quando la Mercedes si è fermata ad un incrocio: dall’ auto che seguiva sono saltati fuori due killer che hanno fatto fuoco con le lupare e con pistole calibro 38. Nessun testimone. Luppino, colpito ripetutamente al volto e al torace, è morto sul colpo. L’ imprenditore, che possedeva anche un supermarket ed era azionista di una società finanziaria, da parecchi anni faceva attivamente politica. Iscritto alla Dc (militava nella corrente dorotea) era consigliere nella Usl di Castelvetrano.
29 aprile 1979
La “guerra del dopo Campisi-Corleo” di Mario Francese
Del banchetto organizzato in un ristorante di Mazara del Vallo il 27 febbraio 1976 da Rosario Cascio (festeggiò così il contratto stipulato con la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga e per realizzare la galleria destinata a deviare il corso del fiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà ricordarsi come punto di partenza nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Quel giorno resterà una data importante perché, ancora una volta, si tentò di uccidere.
La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici della Lodigiani tornarono a Garcia con le loro auto. Cascio si diresse con altri tecnici verso Montevago e Stefano Accardo si mise alla guida della sua “Mercedes” diretto a Partanna insieme al geometra Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardo fece il pieno di benzina presso un distributore gestito da Antonino Luppino, un uomo con il quale scambiò qualche parola. Fatto il pieno la “Mercedes” partì per l’autostrada Mazara-Punta Raisi.
Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino – subito dopo la partenza di Accardo e del suo compagno di viaggio – avrebbe informato qualcuno sull’itinerario della “Mercedes”. E’ certo comunque che, quando l’auto del boss giunse all’altezza dell’abitato di Castelvetrano, da una macchina affiancatasi in velocità furono sparati colpi di mitra e di pistola. La “Mercedes” fu ridotta ad un colabrodo ma sia Accardo che Lombardino rimasero feriti soltanto di striscio tanto che – dopo avere finto di essere morti – proseguirono verso Palermo.
Due le versioni sull’attentato fallito: Accardo doveva morire perché punito da chi lo ritiene autore della soppressione di Vito Cordio ovvero doveva essere eliminato perché le sue confidenze al colonnello Russo avevano consentito la denuncia degli autori dei sequestri Campisi e Corleo.
La risposta all’attentato non si fece attendere. Il 5 aprile, in contrada Ciaccio di Marsala, un “commando” a bordo di un’auto di grossa cilindrata assalì una “131” uccidendo il latitante Silvestro Messina e ferendo il fratello di Vito Cordio, Ernesto Paolo; si salvarono anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.
La paternità dell’agguato viene affibbiata ad Accardo, denunciato ma subito dopo scarcerato.
La serie continua con l’uccisione di Antonino Luppino, proprio il benzinaio di Marsala, probabilmente punito per le informazioni fornite al gruppo Messina-Ferro-Vannutelli.
Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da nomi non sempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia, Piazza, Nicolò Messina, Mario Cordio, Casano. Fino all’assassinio di Vito Vannutelli, fatto fuori non appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopo un rinvio del processo nel quale figurava imputato insieme a Giuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a Mazara il 16 luglio ’77) e al latitante Giuseppe Renda.
Vediamo come i carabinieri individuarono le responsabilità di Vannutelli, colpito da due ordini di cattura per il sequestro Corleo e per l’attentato a Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Lo arrestarono per caso insieme a Nicolò Messina e a Giuseppe Ferro, anch’essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.
I militari avevano organizzato in contrada Marchese, al confine tra il territorio di Monreale e quello di Camporeale, una battuta nel tentativo di rintracciare gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il 19 agosto ’76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistarono due individui accovacciati e armati in mezzo ad un vigneto, a due passi da un casolare.
Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando una pistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri non riuscirono ad acciuffarli ma li riconobbero: erano Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda. Poco dopo sul posto giunse una “126” con a bordo Vito Vannutelli e Nicolò Messina. Avevano un fucile a canne mozze, munizioni e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì a mettere le mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diverso tempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura per l’attentato ad Accardo e Lombardino e presentata una notificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.
Per le armi di cui furono trovati in possesso al momento dell’arresto, Vito Vannutelli, Nicolò Messina e Giuseppe Renda furono rinviati a giudizio i primo febbraio 1977 dal giudice istruttore Mario Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due anni e sei mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a un mese di arresto per favoreggiamento. Quest’ultimo, ritornato a Mazara, sarà ucciso il 16 luglio ’77, quattro giorni dopo la sua scarcerazione.
E’ l’ottavo omicidio della “catena”. Contrastanti le tesi sul movente. Si è ventilata l’ipotesi di un seguito nella guerra fratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri per la mancata divisione dei settecento milioni del riscatto Campisi. Effettivamente ci furono difficoltà per il riciclaggio del denaro a causa delle traversie giudiziarie delle persone che avevano i soldi.
Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto fuori da un clan avverso e vicino a Stefano Accardo.
Né si può trascurare l’ipotesi che Nicolò Messina e, dopo, Vito Vannutelli siano stati eliminati perché ritenuti responsabili dell’identificazione di Giuseppe Ferro e di Giuseppe Renda in occasione del loro arresto in contrada Marchese a Monreale. Una delazione che avrebbe consentito ai carabinieri di individuare subito il nascondiglio di Ferro, arrestato mentre Giuseppe Renda, per la seconda volta, riusciva a sottrarsi alla cattura.
Una tesi non trascurabile quest’ultima. Di rilievo un particolare: quando il 5 luglio 1977 cominciò il processo per le armi trovategli al momento dell’arresto, Ferro non si presentò in aula per non incontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina, anch’essi detenuti.
Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme al compaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo per il sequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza dall’aula il 7 marzo 1978, in occasione del processo di secondo grado per cui era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Anche questa volta avrebbe così evitato di incontrare sul banco degli imputati Vito Vannutelli.
Alcuni particolari meritano attenzione. Nicolò Messina venne ucciso subito dopo la sua scarcerazione. Vito Vannutelli, scarcerato per decorrenza di termini nel febbraio 1978, fu inviato al soggiorno obbligato a Favignana, dove i killer non avrebbero potuto raggiungerlo per le difficoltà che avrebbero incontrato al momento della fuga dall’isola.
Vannutelli è stato quindi atteso ad un varco ??? gato. Chi ha decretato la sua morte sapeva che sarebbe venuto a Palermo per il processo di secondo grado. All’andata Vannutelli avrà colto alla sprovvista i killer raggiungendo Palermo con la “Ford Capri” di un’amica, Concetta Patti. I killer lo hanno atteso all’uscita dal Palazzo di Giustizia. Vannutelli, alla guida della “Ford Capri” in compagnia della Patti e della sua amante Rosalia Signorello, appena fuori dal tribunale si diretto verso il Teatro Massimo. Ed è lì che gli assassini, a bordo di una “127” celestina, affiancarono l’auto. Con rara precisione spararono a lupara contro Vannutelli senza colpire le due donne. La “Ford Capri” rimasta senza guida e piombata sul marciapiede, schiacciò contro la cancellata una studentessa ribaltando poi sul giardinetto del Teatro. La sentenza era compiuta.
Con il delitto Vannutelli siamo giunti al marzo ’78, ma di un vero e proprio giallo non abbiamo ancora parlato: quello del sequestro di Graziella Mandalà, avvenuto il 21 luglio 1976. Un sequestro clamoroso perché si tratta della moglie dell’ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio. Un sequestro atipico perché mai prima di allora la mafia aveva rapito in Sicilia una donna a scopo di estorsione.
Le date acquistano rilievo. Siamo nel luglio del ’76. Un anno prima sono stati sequestrati Corleo e Campisi, vicende successive al sequestro di Franco Madonna, nipote di un personaggio “intoccabile” eppure colpito. I gregari, come si disse, alzavano la testa. La “nuova mafia” squinternava così un sistema basato su equilibri raggiunti dopo anni di lotte interne.